Atmosfera, Litosfera, Biosfera, Idrosfera, Criosfera: con questi cinque termini si rappresentano tutti gli insiemi degli ambienti che costituiscono il pianeta Terra. Studi approfonditi indicano che le interazioni fra questi insiemi di ambienti determinano il clima e l’aspetto del nostro pianeta su larga scala, ma mostrano anche, come avviene in tutti i sistemi complessi, che la previsione di tali effetti sul lungo periodo resta al momento più che una speranza, quasi una chimera.



Eppure, in questo intricato sviluppo di reti di relazioni causa-effetto difficilmente prevedibili, l’attività umana è da tempo sul banco degli imputati: l’alterazione dell’atmosfera, dell’idrosfera, della criosfera e della biosfera, per effetto dell’urbanizzazione oltre che dell’inquinamento, non sono indolori e gli effetti prodotti sono difficilmente immaginabili. L’attività umana è così intensa e le possibilità di intervento così incisivi e variegati che ormai le domande sul “semplice” inquinamento sembrano non bastare più: cosa accadrebbe se ciò che l’uomo produce creasse un nuovo ambiente, una nuova “sfera”? Possiamo immaginare che la vita possa colonizzarla, in forme a oggi sconosciute, creando ex-novo un ambiente interagente con gli altri in modalità ancora più misteriose da decifrare?



Questo, che sembra un brutto sogno di qualche futurologo un po’ fissato, sta in realtà accadendo realmente e non solo, per esempio, in ambienti che già da tempo hanno subito pesanti modifiche da parte dell’uomo, come le grandi discariche, i sobborghi delle grandi città, i grandi complessi industriali abbandonati o i fiumi utilizzati come discariche. Il luogo sotto osservazione è a prima vista impensabile, perché è uno degli scenari più lontani da qualsiasi attività umana: l’Oceano. È nel cuore dell’Oceano Pacifico, infatti, nella più grande distesa d’acqua del nostro pianeta, che si è andato costituendo un nuovo ambiente artificiale, esito indiretto dell’attività umana. Da alcuni anni si osservano infatti, come risultato di smaltimenti non controllati nei fiumi e nei mari e come esito delle correnti oceaniche, grandi ammassi di rifiuti plastici a grande distanza dalle coste americane e asiatiche. È stata realmente individuata un’area enorme (si stima sia grande come due volte il Texas) caratterizzata da una densità di materiali plastici che galleggiano sulla superficie dell’oceano tale da spingere gli oceanografi a coniare un nuovo termine per designare questo per certi versi mostruoso ambiente: plastosfera.



La plastica, in tutte le sue forme, è un materiale diffusissimo e difficile da smaltire: la sua biodegradabilità è molto bassa, e perciò può diventare negli anni la base per la costituzione di un nuovo ambiente, come effettivamente sta accadendo. Non dobbiamo immaginarci delle vere e proprie “isole” di plastica, bensì punti di convergenza di correnti che fanno ammassare migliaia e migliaia di piccoli detriti plastici, sui quali prendono dimora microorganismi piccoli e grandi, piccoli molluschi e pesci. Ci sono gruppi di ricercatori che hanno iniziato a monitorare questi strani ambienti, dei quali si conosce poco, per cercare di capire che tipo di esseri proliferino al loro interno. Il tema è interessante: quello che avviene in quegli ambienti avrà sicuramente un impatto sull’oceano e sulle popolazioni ittiche che vengono con esso in contatto. Che tipo di organismi sono? Quali nuovi equilibri possono determinare nelle catene alimentari? Sono dannosi per i pesci o gli uccelli che vivono dentro e sopra l’oceano?

Non basta però fissare lo sguardo su questo luogo da fanta-horror, perché la plastica letteralmente invade il mondo. Il tema del rapporto tra plastica e ambiente è perciò di più ampia portata e non può essere isolato nello studio un tratto di mare, fosse anche enorme come quello appena citato. Pochi anni fa, nel 2008, l’Onu ha stimato in più di 100 milioni di tonnellate il materiale plastico disperso nelle acque di tutto il mondo. Oggi probabilmente la stima sarebbe molto più alta. La fondazione PlasticOceans stima che la produzione plastica degli ultimi 10 anni sia stata superiore a tutta quella dei 60 anni precedenti. Nonostante gli studi a livello universitario si stiano moltiplicando, andando a toccare moltissimi aspetti dovuti alla presenza della plastica nell’ambiente acquatico, non abbiamo idea di cosa questo possa significare per la vita di laghi, fiumi, oceani, e per quella delle specie terrestri. L’acqua e i raggi ultravioletti infatti sciolgono lentamente i pezzi di plastica in frammenti sempre più piccoli: una recente stima parla di circa 46.000 pezzi di plastica, di dimensioni medie inferiori ai 5 mm, per km quadrato.

Svariati sono gli effetti che si devono considerare: se i pezzi sono grandi, ci sono effetti immediatamente evidenti, come l’intrappolamento dei pesci, anche i più grandi, in grandi reti o in sacchetti e teli; se i pezzi sono piccoli, bisogna considerarne l’ingerimento da parte di pesci e uccelli, che può generare nuovi problemi. Cosa accade a livello fisiologico quando una specie ingerisce e in qualche modo “digerisce” la plastica? Influisce solo sulla vita del soggetto che l’ha ingerita, o essa entra come nuovo elemento nelle catene alimentare? E gli effetti quali sono? E se la plastica si è sciolta per effetto di calore o acidità dell’acqua, che caratteristiche acquisisce l’ambiente acquatico?

E poi, la domanda più importante: come recuperare e smaltire tutta questa plastica? Le domande aperte sono decine, e altre se ne aprono considerando le interazioni fra i viventi e la plastica: abbiamo una lunga strada da compiere per mettere a fuoco la dimensione effettiva del problema e delle possibili conseguenze su vasta scala. Ma nonostante questo, il cammino è da svolgere fino in fondo. È parte del nostro compito di uomini, infatti – come ricordava spesso Papa Ratzinger e come decisamente continua a fare Francesco – “custodire il creato”, anche se questo significa partire per posti lontani e impensabili, come un’isola di plastica nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico.