La ricerca di dispositivi in grado di trasferire grandi quantità di dati e informazioni a velocità crescenti sta diventando una delle sfide tecnologiche più importanti in una società, la nostra, in cui la vita delle persone è sempre più scandita dall’utilizzo dei sistemi informatici.

Attualmente le informazioni vengono codificate sotto forma di segnali luminosi che viaggiano lungo reti di fibre ottiche oppure trasmesse per mezzo di segnali elettrici gestiti da dispositivi a semiconduttore basati sulle tecnologie del silicio. In entrambi i casi, la quantità di dati che può essere trasferita in un determinato intervallo di tempo, dipende dalle caratteristiche fisiche del dispositivo utilizzato.



Nel caso delle fibre ottiche, che pur presentano il vantaggio di possedere una notevole larghezza di banda (un parametro da cui dipende la velocità di trasmissione dei dati), se si cerca di restringere il loro diametro per impaccare più dati in un minore spazio, si va incontro ad una limitazione nella quantità di dati che si riesce effettivamente a trasmettere. Le fibre ottiche presentano, infatti, un limite fisico alla “portata” di dati trasmessi che è funzione esclusivamente delle loro dimensioni.



Al contrario, i circuiti elettronici preposti alla trasmissione dati possono facilmente essere miniaturizzati (i nuovi smartphone ne sono un esempio), ma presentano intrinsecamente una larghezza di banda molto inferiore a quella delle fibre ottiche.

Per cercare di migliorare questi limiti è stata recentemente proposta una nuova tecnica, basata su un fenomeno fisico noto col nome di “plasmoni di superficie”, che dovrebbe riuscire a condensare le migliori caratteristiche del trasferimento dati per via ottica ed elettronica. I plasmoni di superficie, noti anche come “polaritoni plasmonici di superficie” sono onde elettromagnetiche che si propagano in direzione parallela all’interfaccia fra un metallo e una superficie dielettrica (isolante).



Recenti studi hanno inoltre mostrato che è possibile creare plasmoni di superficie nella banda dei Terahertz (una regione spettrale con frequenze più basse di quelle del visibile, ma più alte di quelle delle microonde, a cui corrispondono lunghezze d’onda comprese fra 1 millimetro e 100 micrometri) sfruttando microstrutture metalliche di dimensioni inferiori alla lunghezza d’onda delle radiazioni elettromagnetiche trasmesse.

Si potrebbero ottenere in questo modo dei dispositivi in grado di trasmettere dati a frequenze molto elevate, ad esempio sarebbe possibile costruire dei dispositivi wireless (come i Bluetooth) che operano a frequenze mille volte più elevate rispetto a quelle che si riescono ad ottenere in questo momento.

È in questo contesto che si inserisce il lavoro svolto da un gruppo di ricercatori dell’Università dello Utah (Usa). Utilizzando una comune stampante a getto d’inchiostro (inkjet) di basso costo e due cartucce d’inchiostro di differente colore, riempite rispettivamente con inchiostri a base di argento e di carbonio, i ricercatori americani sono riusciti a realizzare su fogli quadrati di plastica di circa sei centimetri di lato, dieci differenti strutture plasmoniche costituite da matrici periodiche di 2500 “buche” di differenti dimensioni e spaziatura.

Si tratta di un risultato molto importante ai fini della ricerca in questo settore, poiché dimostra che, in linea di principio, è possibile stampare strutture plasmoniche di forma e dimensioni diverse col vantaggio di riuscire a verificare in breve tempo come cambiano le proprietà plasmoniche del metallo usato al variare della microstruttura realizzata.

Per capire fino in fondo la portata di questo risultato occorre ricordare che le tecniche di deposizione attualmente utilizzate per fabbricare le microstrutture plasmoniche di cui stiamo parlando sfruttano sofisticate apparecchiature del costo di milioni di dollari e in grado di produrre un solo dispositivo alla volta.