A seguito della cancellazione delle facoltà, nelle Università italiane si è dato vita ad una serie di Dipartimenti che, nella maggior parte dei casi, si sono sostituiti alle facoltà stesse, mutando la denominazione e, talora, anche la struttura organizzativa. Il mio caso specifico, in quanto geografo, prevedeva un normalissimo ed acquiescente inserimento nel Dipartimento di studi umanistici, essendo laureato in lettere, ma la storia ed il mio gusto di innovazione mi hanno portato a trasferirmi al Dipartimento di Ingegneria per l’ambiente e il territorio e ingegneria chimica. Così ho dovuto imparare molte cose nuove e, un po’ alla volta, ho cercato di inserire la mia sensibilità geografica in un contesto piuttosto differente, sotto il profilo culturale, dal mio.



Accade così che, in occasione della presentazione del Manifesto degli studi di Ingegneria per l’ambiente e il territorio, vengo invitato a partecipare alla discussione sui contenuti delle discipline costitutive la struttura del Manifesto stesso. Le mie osservazioni, in sintesi, constatano quanto segue. Gli insegnamenti impartiti nei cinque anni di corso sono molto frammentati, alcuni iper-specialistici, probabilmente tutti necessari o addirittura fondamentali per acquisire la capacità tecnica e scientifica di intervento sul territorio e sull’ambiente. Il risultato che ne consegue è, quasi sicuramente, la costruzione di un ingegnere che, con sedimentate conoscenze su materie di base come la chimica, la fisica, la matematica e l’informatica, può destreggiarsi nella progettazione e nella realizzazione di manufatti o di attività inerenti l’assetto del territorio. Questo livello di preparazione, tuttavia, è condizione necessaria, ma non sufficiente per svolgere adeguatamente il ruolo di ingegnere ambientale in una visione avanzata e innovativa delle competenze necessarie. Le carenze sono identificabili, a mio parere, nell’assenza di educazione verso una concezione olistica della realtà ambientale, nell’assenza del concetto di appartenenza del soggetto progettuale alla realtà nel suo aspetto sistemico e, infine, nell’assenza di derivazioni culturali e scientifiche rispetto alle implicazioni internazionali sotto il profilo: politico, diplomatico, economico, tecnico e scientifico.



In altri termini, ho motivo di credere che gli insegnamenti, impartiti con grande livello di professionalità da parte dei docenti, siano spesso avulsi da qualsivoglia contesto culturale di riferimento (se non quello strettamente scientifico). La maturazione di un ingegnere ambientale risulterebbe, pertanto, priva di una dimensione culturale di livello internazionale, che penalizzerebbe il soggetto di fronte a sfide innovative e di grande respiro. Ritengo utile, ancora, accennare alla opportunità di proporre agli ingegneri ambientali l’esistenza ed il significato di due realtà istituzionali piuttosto complesse, che sono le Nazioni Unite e l’Unione Europea, da cui dipendiamo in misura estremamente rilevante. La correlazione tra questi due apparati macroscopici è qualcosa che implica livelli di conoscenza operativa, capaci di permeare e comporre strategie di sviluppo sostenibile della realtà nazionale come di quella locale.



A queste mie considerazioni sono seguite discussioni, anche accese, ma alla fine tutti sono stati concordi nel chiedermi di dare concretezza didattica alle mie riflessioni. Così, in breve tempo, ho prodotto lo schema di un corso propedeutico per ingegneri ambientali, che qui presento a grandi linee appoggiandomi ad alcune citazioni significative. A cominciare, come premessa, da questa osservazione di Moni Ovadia (2008): «La scuola oggi tende ad essere meno interessante perché viviamo in una società complessa e agita da molte forze che comunicano informazione tra cui la più devastante e la più perniciosa è la televisione e certe forme di internet perché è uno strumento poderoso. Il problema è quello di ingenerare la cultura verso l’interesse della trasmissione di sapere, mentre, al contrario, si predilige la trasmissione di informazione economica e tecnica per guadagnare quattrini…

 

Il senso di soddisfazione è appagato dal considerarsi all’origine di un progetto di investimento di senso e significato nei confronti del mondo, in grado di verificarsi in base ai dettami imposti dalla realtà». Dovremo poi chiederci da che cosa si origina una visione del mondo. Secondo Freeman Dyson (Lo scienziato come ribelle, 2006): «Non esiste una visione scientifica unica, come non esiste una visione poetica unica. La scienza è un mosaico di visioni parziali e conflittuali. In tutte queste visioni c’è però un elemento comune: la ribellione contro le restrizioni imposte dalla cultura localmente dominante». Mentre per Bertrand Russell «La scienza ha cambiato il mondo. Sotto la sua spinta, tutto si è trasformato: la vita biologica dell’individuo, le forme familiari, le istituzioni politiche, gli assetti sociali, gli ordinamenti economici e lo stesso ambiente naturale». E Laura Tussi (2008) esplicita: «Occorre riconoscere che ciascun individuo, proprio per la sua capacità di pensare, attraverso la ragione si costruisce una propria visione del mondo».

 

Nel passare dalla visione del mondo allo sguardo sulla realtà ambientale, mi sono chiesto: l’esperienza compiuta in che senso appartiene a chi l’ha vissuta? Cioè che tipo di riscontro umano, tecnico, scientifico, culturale, spirituale va ad insediarsi nei transetti dell’esperienza della persona, oppure quasi tutto si conclude con la consegna del lavoro alle stampe, liberandosi così di un fardello corposo, ma inadeguato a soddisfare il proprio desiderio di conoscenza? Poi si ricomincerà da un altro problema… Quello che ho incontrato come geografo visitando il territorio, guardando gli oggetti, localizzandoli, raccogliendoli secondo la logica sistemica, è segno di una novità che tento di incastrare in una visione del mondo, oppure posso certificare un mio cambiamento dipendente dall’esperienza acquisita? Il passo successivo vede la semiotica come strumento per la comprensione della geo-logistica.

Sentiamo il geografo francese Michel Lussault: «Questo termine nel linguaggio filosofico fu usato per indicare la scienza dell’uso, del significato delle parole e dei segni in generale (Locke). Nel linguaggio medico semeiotica o semiologia (dal greco semèion “segno” e logos “discorso”) indica quella disciplina che ha per oggetto lo studio dei segni, cioè dei sintomi delle malattie. Oltre ai segni delle malattie, la semeiotica deve studiare anche i segni delle funzioni normali, cioè i fenomeni normali… Che cosa succede allo spazio quando viene solcato dall’incrocio di azioni individuali e collettive? Quali tracce depositano tali passaggi e come costituiscono, a loro volta, la memoria implicita del contatto fra lo spazio e le soggettività?…

 

Occorre rispondere a queste domande attraverso una riflessione che costantemente rimbalza fra tre concetti: quello di ambiente in quanto spazio d’esperienza carico di vestigia semiotiche; quello di ambientamento come dinamica dell’accordo fra soggettività e ambiente; e quello di ambientazione come artificio che costruisce la parvenza di uno spazio d’esperienza e della sua dialettica con le azioni». Bisogna passare allora a una concezione olistica dell’ambiente. Per secoli Oriente ed Occidente sono rimasti separati da visioni diverse della realtà e dell’esistenza. In Occidente l’ipersviluppo della dimensione intellettuale ha determinato l’indubbio beneficio dello sviluppo scientifico e tecnologico ma l’impoverimento della dimensione esistenziale e la perdita di una visione “olistica” della vita. L’olismo (dal greco olos, cioè “la totalità”) è una posizione teorico-metodologica basata sull’idea che le proprietà di un sistema non possano essere spiegate esclusivamente tramite le sue componenti.

 

Un riferimento fondamentale è La teoria generale dei sistemi, TGS, (Ludwig Von Bertalanffy, 2004); la sua affermazione ha determinato una vera rivoluzione nel modo di concepire la realtà e dunque anche l’ambiente. «Il principio base della TGS sta nel concepire la realtà come un sistema, vale a dire come un’organizzazione di elementi attivi e stabili, che interagisce con un ambiente esterno, va incontro a trasformazioni e si dirige verso un obiettivo» (Adalberto Vallega, 1990). La logica sistemica quindi come superamento della logica cartesiana, come suggerisce Tiziana Banini (Il cerchio e la linea. Alle radici della questione ambientale 2010): «Bertalanffy conduce le proprie riflessioni in alternativa all’impostazione razionalistica classica, secondo la quale le singole parti sono studiate e successivamente sommate le une alle altre, sul presupposto che il comportamento relazionale sia di natura lineare (Aristotele, Galileo, Descartes). Il concetto di sistema diviene così una nozione-chiave per la formulazione di una nuova concezione scientifica del mondo». Quale sarà il seguito di questo lavoro e se ci sarà, lo racconterò in un prossimo articolo.