La ricerca sui nuovi materiali sembra voler scavalcare tutte le barriere; senz’altro quelle disciplinari. Ormai ingegneri, chimici, fisici, informatici, biologi molecolari lavorano fianco a fianco con gli scienziati dei materiali per studiare nuove possibilità e soluzioni per oggetti che presentino proprietà prima impensabili e performance straordinarie. Spesso il contributo dato dalle scienze della vita è quello di spiegare meccanismi profondi degli organismi viventi per suggerire alla creatività dei tecnici delle possibili piste per imitare la natura. Ed è inevitabile pensare che sotto sotto, che lo si espliciti o no, c’è l’idea che la natura è stata “progettata” in modo insuperabile e che la creatività del “progettista” sia fonte inesauribile di spunti e di idee.
In questo senso, qualche tempo fa nei laboratori del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale del MIT di Boston i bioingegneri si sono ispirati alle ossa umane per realizzare dei compositi innovativi con proprietà di leggerezza, durata e sostenibilità ambientale. Il motivo che li ha spinti ad imitare il tessuto osseo è che questo è di fatto un composito naturale: è un materiale complesso, resistente a carichi elevati ma anche poco fragile e ciò è dovuto alla sua struttura costituita da una sostanza organica soffice (il collagene) e da un minerale rigido (l’idrossiapatite). La sua strutture geometrica è organizzata in modo tale da metterlo in condizioni di dissipare energia su aree più grandi e di indirizzare le eventuali fratture attraverso percorsi complessi e meno critici per la struttura.
I ricercatori del MIT hanno riprodotto tutte queste caratteristiche realizzando nuovi tipi di materiali con un approccio tale da superare le difficoltà che di solito si incontrano nel tentativo di creare strutture complesse: hanno pensato di impiegare una delle apparecchiature più avanzate nell’attuale panorama del manufacturing, una stampante 3D, che ha combinato polimeri rigidi e soffici in modo molto preciso secondo degli schemi geometrici molto complessi, precedentemente ottimizzati con appositi software. Sono state realizzate strutture di tre diversi tipi: una a mattoncini in cui la calce è elastica e i mattoni rigidi; una duale della precedente, con celle rigide che contengono polimero più elastico, simulando la calcite; e una secondo una schema a diamanti, simile alla pelle di serpente.
Il risultato è stato una varietà di materiali con una notevole resistenza alla frattura, fino a 22 volte superiore a quella dei materiali base.
Sempre alle ossa si sono ispirati altri scienziati del MIT, questa volta del Dipartimento di Ingegneria Biologica e in particolare del gruppo di biologia sintetica guidato da Tim Lu. Il loro interesse si è rivolto alla caratteristica del tessuto osseo di abbinare materia inanimata a materiali organici, base dei sistemi viventi. Il loro intento era di ottenere materiali ibridi che unissero i vantaggi delle cellule viventi, come quello di rispondere agli stimoli dell’ambiente, ad alcune proprietà dei materiali “non viventi”, ad esempio quella di condurre elettricità o di emettere luce. Il risultato è stata la produzione, a partire da cellule batteriche, di sottili biofilm in grado di incorporare materiali inorganici come nanoparticelle di oro e punti quantici (più noti come quantum dot).
Come batterio di partenza, c’era da immaginarselo, hanno pensato al celebre Escherichia Coli, che produce naturalmente biofilm contenenti delle piccole fibre dette curli, cioè delle proteine amiloidi che aiutano l’E. Coli ad attaccarsi alle superfici. Ogni fibra curli è costituito da una catena di subunità proteiche identiche, le CsgA, che può essere modificata aggiungendo frammenti di peptidi. Questi sono in grado di catturare i materiali come le nanoparticelle d’oro, incorporandoli nei biofilm.
Programmando le cellule per produrre diversi tipi di fibre curli sotto certe condizioni, i ricercatori hanno potuto controllare le proprietà del biofilm e creare nanofili d’oro, biofilm conduttori, biofilm costellati di punti quantici, o piccoli cristalli con proprietà quanto-meccaniche. Hanno inoltre ingegnerizzato le cellule in modo che potessero comunicare tra loro e modificare nel tempo la composizione del biofilm.
Ora il team di Lu, dopo la pubblicazione dei risultati della ricerca sull’ultimo numero di Nature Materials, sta lavorando per rendere sempre più adeguato il procedimento e per estendere le possibilità di ibridazione dei materiali. Ma già si intravedono le possibili applicazioni: che vanno dal campo energetico, con la progettazione di speciali celle solari, all’ambito biomedico con la messa a punto di materiali per auto-medicazione o sensori per la diagnostica. Si sta anche pensando di rivestire i biofilm con enzimi che catalizzano la rottura della cellulosa, in modo da arrivare a realizzare semplici sistemi per la conversione dei rifiuti agricoli in biocarburanti.