Cos’è il tempo? Se lo sono chiesto fin dall’antichità filosofi e scienziati, ma nessuno è mai riuscito a dare una risposta definitiva. Eppure non soltanto filosofi e scienziati, ma qualunque essere umano “sa” cos’è il tempo. «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più» diceva Sant’Agostino nelle Confessioni (libro XI, 14). Eppure il Vescovo di Ippona aveva una “sua” concezione filosofica del tempo, come “distensione” dell’anima nel passato con la memoria, nel presente con la percezione e nel futuro con l’aspettazione. È l’anima o coscienza che, immobile, misura il fluire del tempo.
Si potrebbe spiegare (o dispiegare) ulteriormente la concezione del tempo in Agostino, senza tuttavia poter mai arrivare a una vera definizione esplicita o logica. Il motivo è che il tempo è un concetto primitivo e come tale indefinito, così come lo sono le idee primitive. Tuttavia, come tutte le idee primitive, anche il tempo è definibile implicitamente e l’analogia con la geometria ci aiuta a capire meglio cosa ciò significhi.
Il punto, la retta e il piano sono le idee poste all’inizio della geometria e come tali non sono definibili esplicitamente tramite il riferimento ad altre idee, come invece accade per le idee derivate, per esempio una qualunque figura geometrica, ma lo sono invece implicitamente tramite i postulati, che sono le proprietà indimostrate di cui esse godono. Una di queste afferma che per due punti distinti passa una e una sola retta. Questa proprietà caratterizza sia i punti sia le rette come quegli enti che ne godono e quindi implicitamente li definisce attraverso una loro mutua relazione.
Tutta la geometria euclidea è costruita sulle idee di punto, retta e piano, senza tuttavia aver potuto definire la natura del punto, della retta e del piano. Infatti, i postulati o assiomi lasciano del tutto indeterminata la natura o essenza delle idee primitive proprio perché possono definirle soltanto implicitamente. Il grande matematico David Hilbert diceva che qualunque “oggetto” (mentale) che soddisfi i postulati euclidei può essere il punto, la retta e il piano. Gli assiomi, relazionando fra loro gli enti primitivi o idee primitive, definiscono su di essi una “struttura matematica”. Ciò che è importante, perché consente lo sviluppo rigoroso della geometria euclidea, è sapere quali sono le relazioni che li legano l’uno all’altro più che sapere qual è la loro natura in sé.
Una situazione analoga si presenta nel caso del tempo: nessuno sa cos’è il tempo nella sua sostanza e quindi non può definirlo esplicitamente, ma tutti usano quotidianamente il concetto di tempo e quindi implicitamente hanno un’idea del tempo. In fondo le definizioni “implicite per uso”, che definiscono indirettamente un ente tramite l’uso e il contesto che lo riguardano, sono non solo quelle più diffuse ma anche quelle per noi più “convincenti” e costituiscono gran parte della nostra conoscenza.
L’uso più comune del tempo ci porta a misurarlo con fenomeni ripetitivi con regolarità periodica, attribuendo numeri diversi a istanti diversi. A questo uso del tempo si riferiva Aristotele nel suo tentativo di definirlo come «numero del movimento, secondo il prima e il poi» (Fisica, Libro IV, 219b), riducendolo quindi a un contare gli istanti. Ma chi conta? «…L’anima ci suggerisce che gli istanti sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c’è tra questi due istanti un tempo, giacché il tempo sembra essere ciò che è determinato dall’istante» (Fisica, Libro IV, 219a-25). Per Aristotele, dunque, il tempo “oggettivo” in quanto numerato e numerabile presuppone un numerante che è l’anima: l’esistenza dell’anima e l’esistenza del tempo sono intimamente interdipendenti.
Il tempo è quindi oggettivo (come sosteneva Aristotele) o soggettivo ed evolutivo (come sosteneva Bergson)? È reale e assoluto (come pensavano Galileo e Newton) o è relativo e illusorio (come pensava Einstein)? È eterno (come pensavano Aristotele e Giordano Bruno), oppure ha avuto una nascita (come sosteneva Agostino)? Chi pensa che il tempo (assoluto) abbia avuto una nascita lo concepisce come figlio di un evento singolare e irripetibile, che non ha avuto nessun evento antecedente: la creazione del mondo, secondo la tradizione biblica, o il Big Bang, secondo una visione scientifica oggi molto accreditata.
Di parere opposto è invece lo scienziato russo Ilya Prigogine, premio Nobel 1977 per la chimica, noto per i suoi originali studi sulla termodinamica dei sistemi non in equilibrio, che lo hanno portato alla scoperta di strutture dissipative creatrici da una parte di disordine ma dall’altra anche di nuove strutture ordinate. Tali ricerche sui fenomeni irreversibili lo hanno indotto a ripensare la concezione del tempo, capovolgendo la posizione dei creazionisti: «Gli sviluppi recenti della termodinamica ci propongono dunque un universo in cui il tempo non è né illusione né dissipazione, ma nel quale il tempo è creazione».
Questa concezione di un «tempo creativo» è intimamente legata a una concezione cosmologica del tutto differente da quelle precedenti e da quella ancor oggi dominante del Big Bang. Per Prigogine, il Big Bang non è stato generato da una singolarità ma da una instabilità, è stato un cambiamento di stato della materia, che si può ripresentare in forma diversa come risultato di un nuovo fenomeno di instabilità. Il Big Bang come fenomeno singolare e irripetibile – osserva giustamente Prigogine – dovrebbe rimanere fuori della giurisdizione della scienza moderna, che secondo l’impostazione galileiana studia soltanto fenomeni ripetibili o riproducibili.
Prigogine accoglie in pieno la lezione darwiniana sull’evoluzione, che estende dal mondo organico a quello inorganico, rompendo quella asimmetria nelle leggi di natura che invece esisterebbe confinando l’evoluzione nel mondo del vivente. L’evoluzione nel mondo inorganico si esprime, per Prigogine, nella irreversibilità di alcuni fenomeni fisici e chimici. Deviazioni infinitesime dall’equilibrio, in taluni casi, subiscono fluttuazioni che si amplificano sempre più allontanando la materia dallo stato di equilibrio iniziale. Ciò si verifica nelle strutture dissipative, che i fisici prima di lui consideravano creatrici soltanto di disordine e di entropia ma che, invece, lo scienziato russo ha dimostrato possono condurre a nuove forme di ordine.
Applicato su scala cosmica, l’evoluzionismo integrale di Prigogine lo porta ad affermare che «un altro universo si formerà ogni volta che le condizioni astrofisiche saranno favorevoli a tale evento. […] La nascita del tempo non è, dunque, la nascita “del ” tempo» – afferma Prigogine – ma del nostro tempo, quello di questo universo e non dell’universo. «Già nel vuoto fluttuante il tempo preesisteva allo stato potenziale […]. Arriviamo così a un tempo potenziale, un tempo che è “sempre già qui”, allo stato latente, che non chiede che un fenomeno di fluttuazione per attualizzarsi. In questo senso, il tempo non è nato con il nostro universo; il tempo precede l’esistenza, e potrà far nascere altri universi».
È sorprendente osservare come l’idea di fondo di Prigogine sulla creazione come risultato di una instabilità sia, nella sostanza, molto simile a quella del clinamen di Lucrezio, secondo il quale la creazione di nuova materia è dovuta all’urto fra gli atomi (rerum primordia) tratti nel vuoto verso il basso in linea retta dal peso. Ma questi urti non avverrebbero se, in tempi e in luoghi assolutamente indeterminati (quindi casuali), non subissero una piccola deviazione (clinamen), «tanto quanto basta a dire che il moto è cambiato». Si ripropone dunque la questione: la natura è determinista o probabilista? In quest’ultimo caso non si tratterrebbe di un probabilismo soggettivo alla de Finetti, che riguarda la conoscenza, ma di un probabilismo oggettivo, che riguarda le leggi della natura in sé e non più nella loro percezione e rappresentazione da parte dell’uomo.