Come siamo sopravissuti alle infezioni nella nostra storia evolutiva? Quali sono stati i geni che ci hanno aiutato a resistere ai nostri peggiori nemici? A poco a poco arrivano le risposte a simili domande e un importante contributo in questa direzione viene da una ricerca italiana sull’evoluzione della risposta immunitaria pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista Plos Genetics.



Lo studio è nato dalla collaborazione tra gli IRCCS Eugenio Medea e Fondazione Don Gnocchi, l’Università degli Studi di Milano e l’Università di Milano Bicocca, ed era indirizzato ad analizzare la storia evolutiva dei geni essenziali per la risposta alle infezioni. Le infezioni hanno da sempre rappresentato un’importante pressione selettiva, agendo come un setaccio che consente di sopravvivere e riprodursi solo a chi sia meglio adatto (geneticamente) a rispondervi. La selezione naturale lascia delle “impronte” che possono essere identificate attraverso metodiche di evoluzione molecolare: identificare tali impronte, come hanno fatto i ricercatori milanesi, significa comprendere quali geni e varianti siano stati selezionati per meglio rispondere ad una o più infezioni.



Ne abbiamo parlato con uno dei protagonisti della ricerca, la dottoressa Manuela Sironi dell’IRCCS Medea di Bosisio Parini.

Cosa significa che la selezione naturale lascia delle “impronte” nel genoma?

Se confrontiamo la variabilità genetica tra specie diverse, oppure quella che esiste all’interno di alcune popolazioni umane, possiamo identificare queste impronte. Abbiamo confrontato le regioni codificanti, cioè quelle che poi vanno a produrre proteina e abbiamo rilevato un’impronta che è rappresentata da posizioni amminoacidi che cambiano continuamente tra le diverse specie. Vedendo questo cambiamento capiamo che c’è stata una selezione: un amminoacido è stato spinto a cambiare per qualche tipo di pressione selettiva.



Che tipo di analisi avete fatto per vedere tali cambiamenti?

Quando dico “vediamo” mi riferisco a ciò che risulta dall’applicazione di metodi statistici. Abbiamo constatato che, osservando un singolo codone (cioè unità codificanti alla base del codice genetico, ndr), la frequenza di mutazioni non sinonime, cioè che cambiano amminoacido, è più alta di quella delle mutazioni sinonime. Questo per quanto riguarda il confronto tra specie diverse.

Per il confronto tra popolazioni umane bisogna dire che anche nel genoma umano quando le varianti sono sottoposte a una pressione selettiva rimane un’impronta: questa può essere misurata sempre con tecniche di confronto della variabilità di tanti soggetti presi tra diverse popolazioni: questo perché potrebbe succedere che la pressione selettiva agisca solo a livello locale, perché magari c’è un patogeno in quella regione e non in altre. Anche in questo caso troviamo delle impronte che vengono evidenziate attraverso un confronto tra le sequenze di cromosomi di vari soggetti di diverse popolazioni.

Nel’articolo su PLoS Genetics voi riferite di aver cercato le impronte nel processo di “presentazione dell’antigene”: di che cosa si tratta?

La presentazione dell’antigene è la fase iniziale della risposta immune: è un processo che permette al nostro sistema immunitario di riconoscere la presenza di un’infezione. Quando c’è un’infezione, ad esempio virale, si attiva un meccanismo che dice al sistema che è arrivato il virus e bisogna combatterlo; quindi le cellule del sistema immunitario devono essere messe in grado di riconoscere il virus. Nelle cellule ci sono dei processi che prendono le proteine virali, le spezzettano in frammenti sufficientemente piccoli, detti appunto antigeni, li montano su una speciale molecola e li portano alla superficie della cellula: solo in questo modo le componenti virali o batteriche possono essere riconosciute dalle cellule della risposta immunitaria. Nel nostro studio ci siamo focalizzati sui geni che sono coinvolti in questo processo.

 

E che cosa avete scoperto?

Si sapeva già che le molecole presenti nel processo di presentazione dell’antigene sono sottoposte a una pressione selettiva molto forte alla quale reagiscono in vari modi. Noi abbiamo esteso l’analisi a tutti i geni del processo e abbiamo trovato che la selezione è pervasiva, cioè agisce su tantissimi geni sia a livello interspecifico che all’interno della stessa specie; il che vuol dire che la pressione selettiva è durata per tantissimo tempo, per milioni di anni.

Poi abbiamo visto che le regioni sottoposte alla selezione, i singoli amminoacidi, sono molto importanti per le funzioni della proteina: ad esempio possono interagire direttamente con l’antigene, quindi sono pronti per rispondere meglio a determinate infezioni. 

A livello di confronto tra le popolazioni umane abbiamo visto che ci sono anche in questo caso molte varianti: a volte sono varianti solo regolatorie, cioè decidono quanto dovrà essere espresso un gene. Se c’è una variante comunque riteniamo debba essere funzionale e possa determinare la diversa sensibilità a una malattia. Quello che abbiamo trovato quindi può aiutarci a isolare nuove varianti genetiche che predispongano o proteggano da specifici patogeni. Ad esempio, lo studio ci ha consentito di identificare una variante che causa una variazione amminoacidica nella proteina langherina, coinvolta nella risposta immunitaria mucosale, e di dimostrare come tale variante protegga dall’infezione da HIV.

Quali prospettive si aprono, in particolare per quali malattie infettive?

Prospettive terapeutiche per ora direi di no. Però possiamo fare passi avanti per capire quali sono le varianti che ci proteggono da certe infezioni; a quel punto può iniziare la ricerca di soluzioni terapeutiche e soprattutto preventive: se so che sono particolarmente suscettibile a una data malattia magari cerco di non espormi o prestare maggior attenzione. Questo però sarà il futuro.

Per ora, quello che noi abbiamo fatto è stato descrivere la variabilità presente nei geni, individuare la selezione che ha agito su tali geni e mostrare come queste varianti sono coinvolte in alcuni processi immunitari, come l’HIV o come il morbo di Crohn. Quest’ultimo è un caso importante che si inserisce nel dibattito sull’autoimmunità: c’è una linea di pensiero, che condividiamo, che sostiene che le varianti che ci predispongono all’autoimmunità ci proteggono però da alcune infezioni e quindi c’è un legane tra infezioni e malattie infiammatorie croniche.

Proseguendo le nostre indagini, adesso andremo a studiare con tecniche classiche, test in vitro, la funzione delle varianti che abbiamo identificato. Un’altra idea e di valutare il ruolo di queste varianti nell’azione di alcun inibitori che sono codificati dai virus; è il processo che si innesca perché i virus fanno di tutto perché i loro antigeni non siano presentati. L’idea allora è di verificare se le varianti che abbiamo trovato non siano proprio le interfacce di queste interazioni virus – patogeno.