Un team di ricercatori dello Scripps Research Institute negli Stati Uniti, guidati da Floyd Romesberg, ha pubblicato pochi giorni fa su Nature il resoconto di un lavoro scientifico che ha avuto un’ampia risonanza negli organi di stampa, come pure all’interno della comunità scientifica internazionale. Certa stampa ha infatti salutato la scoperta come il primo passo verso la vita artificiale. Per chiarire quale sia la portata di questa ricerca, prima di delineare i termini concreti del lavoro svolto dovremo opportunamente premettere alcuni elementi di contesto.



Come ormai tutti sanno almeno a grandi linee, negli organismi è il DNA che codifica le proteine, che nel loro insieme costituiscono il macchinario che sostiene quasi tutte le funzioni, a livello cellulare e di organismo. Le proteine sono polimeri lineari costituti dall’assemblaggio di un repertorio di 20 diversi amminoacidi e ciascuna di esse può consistere di un numero variabile di amminoacidi (da poche decine a diverse migliaia). Il DNA è a sua volta un polimero lineare che codifica l’informazione con un alfabeto di “quattro lettere”: chimicamente si tratta di quattro nucleotidi, consistenti di una diversa base azotata, dello zucchero deossiribosio e di un fosfato. Le basi sono adenina, timina, guanina e citosina (abbreviate rispettivamente in A, T, G e C). La sequenza in basi costituisce il contenuto di informazione del DNA.



Esso inoltre è composto di due filamenti che si avvolgono l’uno sull’altro a formare la ben nota “doppia elica” e le loro sequenze in basi sono complementari: vale a dire, quando in un filamento in una data posizione della sequenza è presente una adenina, nell’altro filamento alla corrispondente posizione è presente una timina; e così pure a una guanina corrisponde una citosina. I geni sono normalmente tratti di DNA che codificano proteine. Il codice genetico stabilisce la corrispondenza tra qualsiasi sequenza di tre basi e un determinato amminoacido; più specificamente, ognuno dei 20 amminoacidi è codificato da una o più sequenze di tre basi detta codone. Poiché infatti esistono 4 x 4 x 4 = 64 codoni, la maggior parte dei 20 amminoacidi deve essere codificata da più di un codone.



Gli scienziati dello Scripps Institute hanno ingegnerizzato un microrganismo ampiamente utilizzato nelle sperimentazioni biologiche, l’Escherichia coli, così da introdurre una coppia di nucleotidi non naturale, denominati d5SICS e dNAM, le cui basi sono in grado di appaiarsi l’una con l’altra, come le altre due coppie naturali. Tale organismo possiede quindi, almeno in linea di principio, un DNA con tre coppie di basi anziché due, con il conseguente incremento di variabilità combinatoriale della sequenza.

In altre parole, il numero teorico possibile di codoni sale da 64 a 6 x 6 x6 = 216. Bisogna però precisare che tale nuova coppia di basi era presente in un’unica copia nel microrganismo ingegnerizzato (a fronte delle migliaia di coppie naturali ivi presenti) e neppure si trovava nel cromosoma batterico, bensì in un plasmide, cioè un elemento genetico extracromosomiale, che frequentemente i batteri possiedono, replicano e trasmettono alle cellule figlie (e anche si scambiano talvolta tra loro).

Inoltre il tratto di DNA plasmidico che conteneva tale coppia non naturale di basi non veniva trascritto, vale a dire, non veniva utilizzato per produrre proteine come gli altri geni naturali; né avrebbe potuto essere altrimenti, dato che il normale corredo di componenti molecolari necessari allo scopo non era evidentemente in grado di riconoscere le basi non naturali. Tuttavia, nel corso della divisione cellulare il plasmide era replicato normalmente e trasmesso alle cellule figlie con buona stabilità dagli enzimi deputati a questo: quindi non era trattato come un corpo estraneo e rimosso, come fanno certi sistemi enzimatici verso sequenze di DNA riconosciute come estranee o danneggiate.

Per raggiungere questo obiettivo, gli autori del lavoro hanno modificato geneticamente il microrganismo in modo da renderlo capace di importare i nucleotidi contenenti le basi modificate (aggiunti al terreno di crescita); hanno inoltre costruito un plasmide già contenente nella sua sequenza tali basi e lo hanno introdotto nel microrganismo con le tecnologie oggi disponibili allo scopo. Il microrganismo è quindi dipendente dal rifornimento dall’esterno dei nucleotidi non naturali per poter replicare nel suo DNA le basi modificate.

Da un punto di vista tecnologico il lavoro si è avvalso della combinazione di molteplici metodologie molto avanzate, anche se oggi accessibili a qualsiasi buon laboratorio che maneggi tecniche di biologia molecolare e di biochimica. Per le implicazioni teoriche si tratta indiscutibilmente di un contributo di primissimo piano. Il lavoro dimostra infatti che le caratteristiche molecolari che noi osserviamo oggi negli organismi non sono le uniche possibili. In altre parole, esso suggerisce che gli organismi possiedano caratteristiche selezionate tra un repertorio molto più ampio di opzioni, che avrebbero potuto essere adottate e che sono state scartate in modo probabilmente casuale. Questa conclusione ha implicazioni fondamentali nella comprensione delle dinamiche evolutive.

Anche le ricadute pratiche potrebbero essere di grande rilievo, sebbene al momento sia prematuro fare previsioni al riguardo. In particolare, l’espansione della diversità di sequenza del DNA potrebbe portare ad una parallela espansione della diversità strutturale delle proteine in organismi ingegnerizzati, rendendo possibile produrre varianti proteiche che contengono un repertorio aggiuntivo di amminoacidi artificiali oltre ai 20 naturali. L’aspettativa è che proteine artificiali così prodotte possano sostenere nuove funzioni, ad esempio di interesse in campo biotecnologico.

Bisogna però osservare, a questo riguardo, che l’obiettivo richiederebbe una serie di interventi tecnologici sugli organismi, la cui complessità sarebbe tale da far impallidire l’impresa compiuta dai ricercatori della Scripps. Come minimo si tratterebbe di produrre un repertorio più o meno ampio di tRNA e di amminoacil-tRNA sintetasi artificiali. Complessivamente, tali molecole sono alla base del processo di sintesi proteica, in quanto consentono l’assemblaggio di un dato amminoacido nella proteina in via di sintesi nella giusta posizione della sequenza, grazie al corretto riconoscimento del corrispondente codone. Dunque bisognerebbe costruire nuovi organismi in grado di produrre autonomamente parecchi tRNA e amminoacil-tRNA attualmente non presenti nel repertorio naturale degli organismi. Si tratterebbe di un’impresa connotata da considerevolissime difficoltà pratiche e teoriche.

Al termine di queste considerazioni ci possiamo chiedere in che misura il lavoro descritto possa essere considerato un passo verso la vita artificiale, come annunciato da alcuni mezzi di informazione. Gli ulteriori sviluppi di queste ricerche potranno portare alla realizzazione di organismi (dapprima batterici o unicellulari) sempre più distanti nelle loro caratteristiche molecolari dai progenitori naturali e capaci di adempiere compiti biotecnologici sempre più sofisticati.

Ma sembra opportuno osservare che essi, per quanto diversi dai progenitori, non potranno che continuare a essere governati dalle leggi e dai meccanismi di base che caratterizzano gli organismi naturali, quali ad esempio il deposito di informazione nel DNA, le proteine come attuatori di quasi tutte le funzioni biologiche, determinati meccanismi di replicazione del DNA e delle cellule medesime, e via dicendo.

In altre parole, nuovi organismi, che peraltro già esistono in tutti i laboratori biotecnologici, non saranno altro che “variazioni sul tema” di quelli naturali. Parlare di vita artificiale in senso stretto (un concetto che peraltro gli autori del lavoro non menzionano affatto nel riportare i loro risultati) richiederebbe di progettare ex novo un sistema vivente, basato su nuove leggi e molecole completamente predefinite dall’uomo. Ciò sembra un obiettivo irrealizzabile, almeno allo stato attuale delle conoscenze.