In 24 anni di onorato servizio in orbita, il telescopio spaziale Hubble ci ha abituato alle super performance e anche recentemente non si è smentito, regalando agli astronomi un’immagine speciale delle profondità cosmiche esplorate in luce ultravioletta.

L’immagine è il risultato della sovrapposizione dei dati raccolti dal 2003 al 2012, in dieci anni di osservazioni delle galassie più lontane attraverso due dei più potenti strumenti di bordo e cioè la Advanced Camera for Surveys e la Wide Field Camera 3. Obiettivo di queste osservazioni era lo spazio profondo; anzi, lo spazio ultra profondo, l’Hubble Ultra Deep Field (HUDF), come lo chiamano gli scienziati di Baltimora dove ha sede lo Space Telescope Science Institute.



Da tempo gli astronomi hanno potuto studiare l’HUDF grazie a una serie di immagini catturate dal telescopio spaziale tra il 2003 e il 2009 in luce visibile e nel vicino infrarosso. Sono tre le immagini più suggestive ed emozionanti che possiamo avere dell’universo, se si pensa che quella distribuzione di puntini e piccole macchie bianche e rossicce ci porta informazioni da una piccola sezione di spazio nella costellazione della Fornace che però contiene circa 10.000 galassie, alcune delle quali sono le più distanti mai riprese da un telescopio ottico e risalgono a quando l’universo aveva la tenera età di 800 milioni di anni.



Ora però Hubble si è superato e ai dati raccolti in luce visibile e nell’infrarosso hanno aggiunto quelli che arrivano nell’ultravioletto: ne è risultato il quadro variopinto di Hubble Ultra Deep Field 2014, realizzato mettendo insieme le osservazioni eseguite nel corso di 841 orbite del telescopio e che consente agli astrofisici di utilizzare tutta la tavolozza cromatica disponibile. L’ultravioletto è uno dei “colori” della tavolozza cosmica e da tempo gli scienziati hanno imparato ad utilizzarlo.

La cosa non è facile, perché lo studio dell’emissione ultravioletta da parte degli astri è ostacolato dalla nostra atmosfera. Lo sviluppo di questo settore dell’astronomia è iniziato solo verso la metà del secolo scorso, quando sono stati installati rivelatori ultravioletti a bordo di palloni sonda, razzi balistici e satelliti.



Con questi ultimi si sono fatti grandi passi avanti, a partire dagli anni ’70 con l’International Ultraviolet Explorer (IUE), per poi arrivare negli anni ’90 al primo osservatorio spaziale nell’estremo ultravioletto (Extreme Ultraviolet Explorer, EUVE) e sul finire del secolo al FUSE, dedicato allo studio del gas caldo nelle vicinanze del Sole. Infine nel 2003 è stato lanciato GALEX (Galaxy Evolution Explorer), con l’obiettivo di studiare l’evoluzione galattica, osservando galassie a diverse distanze, e le stelle giganti blu nelle galassie.

Il valore delle nuove immagini di HUDF 2014 sta nel fatto che colma una lacuna conoscitiva relativa all’evoluzione stellare. La descrizione del processo di formazione delle stelle in galassie vicine ha ricevuto importanti contributi da una missione come GALEX; mentre per quanto riguarda la nascita delle stelle in galassie lontane lo stesso Hubble ha già fornito notevoli risultati con le osservazioni nel vicino infrarosso. Restava però scoperto il periodo intermedio, quando sono nate la maggior parte delle stelle, corrispondente a una distanza che si estende da circa 5 a 10 miliardi di anni luce. Secondo il pittoresco commento di Harry Teplitz del Caltech di Pasadena e Principal Investigator del programma, «la mancanza di informazioni da luce ultravioletta rendeva il nostro studio del HUDF come quello di chi vuol ricostruire la storia di una famiglie senza conoscere i bambini in età scolare» Adesso il gap è colmato.

E c’è un ulteriore risultato di queste ricerche. Come è noto, la Nasa sta avanzando nel programma che porterà in orbita l’erede di Hubble, cioè il James Webb Space Telescope (JWST), specializzato nelle osservazioni a infrarossi. Per poterle meglio programmare, in vista della loro possibile combinazione con le osservazioni nelle altre frequenze, quanto si è visto con HUDF 2014 diventa di estrema rilevanza. Ma lo capiremo meglio dopo il 2018, quando (forse) sarà lanciato il tanto atteso JWST.