E’ possibile ragionare sull’utilizzo di piante transgeniche (più impropriamente e comunemente chiamate OGM) in Europa, partendo dall’analisi di dati certi? Su questo argomento l’Unione Europea sta agendo nell’interesse dei consumatori nel modo più trasparente e razionale possibile? Sono queste alcune delle domande attorno alle quali si è ragionato in un convegno tenutosi lo scorso 12 giugno a Milano nella Facoltà di Agraria dell’Università Statale. L’incontro è stato organizzato dall’Università e dall’Accademia dei Georgofili, organizzazione storica nata a Firenze nel 1753, da sempre dedita allo sviluppo delle scienze agrarie e alla tutela del territorio. Il titolo scelto – “Il peso della non scienza in agricoltura” riflette come il dibattito su questi temi è da troppo tempo fermo a un inutile muro contro muro fra sostenitori e detrattori, in cui questioni di principio e interessi personali spesso prevalgono sulle argomentazioni scientifiche e razionali. 



I lavori del convegno hanno avuto come maggior pregio quello di argomentare la discussione da molti punti di vista. Esperti internazionali si sono infatti alternati nei loro interventi con valutazioni scientifico-biologiche e evidenze di carattere economico, ecologico e giuridico. Quindi, se un dibattito scientifico serio deve partire da dati certi e verificati, in questo senso è stato illuminante l’intervento di Graham Brookes, economista e fondatore di PG Economics, una ditta di consulenze nel settore agricolo. Brookes ha riassunto lo stato dell’arte sulle coltivazioni transgeniche a livello mondiale nel periodo che va dal 1996 al 2012, riportate in diverse pubblicazioni scientifiche disponibili a chiunque voglia approfondire l’argomento. Da qui ricaviamo che dall’adozione di colture transgeniche per produzioni alimentari (ad esempio mais e soia) o per l’industria tessile (cotone) sono stati ottenuti una serie di vantaggi che troppo spesso vengono ignorati dai detrattori. Fra questi, il ridotto uso dei pesticidi (-20%) nelle coltivazioni di cotone e mais resistenti agli insetti e il minor impatto ambientale che le pratiche agricole su queste varietà comportano, ad esempio la riduzione di quasi due miliardi di kg delle emissioni di CO2, uno dei principali gas serra. Tuttavia, pur ammettendo questi aspetti positivi, una delle principali critiche che vengono da chi si oppone si basa sul fatto che, in materia di colture transgeniche, il rapporto fra costi e benefici determinerebbe vantaggi economici solo per le potenti multinazionali detentrici dei brevetti, il tutto a danno di agricoltori e consumatori. Quanto c’è di vero in questa affermazione? Poco o niente. Lo studio sopra citato riporta infatti chiaramente che il reddito di queste colture transgeniche è in media 120$/ettaro in più rispetto a equivalenti più tradizionali (su questa definizione di tradizionale ci sarebbe poi da discutere). Questo aumento va per circa un quarto a beneficio dei produttori delle sementi e il resto agli agricoltori. Non bisogna poi dimenticare che se si eliminassero dall’oggi al domani le produzioni transgeniche, la riduzione nelle rese comporterebbe, a parità di superficie, una riduzione nella produzione (con conseguente aumento dei costi per i consumatori) o, in alternativa, un aumento nella superficie coltivata, a parità di produzione.



Ma se è vero che ci sono vantaggi di varia natura, cosa limita l’approvazione di queste colture nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea? E’ questo il punto, da quanto è emerso nel convegno, in cui la non-scienza e la mancanza di razionalità si fanno maggiormente sentire, con conseguenze nefaste. Justus Wesseler, economista ed esperto di politiche agroalimentari dell’Università di Wageningen (Olanda) e Paolo Borghi, giurista specializzato in diritto europeo e alimentare dell’Università di Ferrara, si sono soffermati sulla descrizione della Direttiva europea che al momento regola le coltivazioni transgeniche nel territorio dell’Unione, ovvero la tanto discussa2001/18 approvata dalla Commissione Europea nel 2001. Questa è una direttiva iper-cautelativa che blocca di fatto quasi completamente qualsiasi tentativo di utilizzo di transgenici nel territorio UE. Tale direttiva, contrariamente al parere di larga parte della comunità scientifica, venne incontro alle richieste di quei movimenti che già nel 1998 fecero pressione affinché cinque Stati, fra cui l’Italia, bandissero da una parte l’approvazione per la coltivazione a livello comunitario e talvolta, a livello nazionale, anche il consumo, a dispetto della normativa europea allora vigente (90/220/CEE). Questa forte presa di posizione, definita moratoria de facto, impedì qualsiasi discussione costruttiva in materia di transgenici e portò alla approvazione della suddetta Direttiva 2001/18. Il risultato fu che nobili vessilli quali il diritto di scelta dei cittadini, la necessità di etichettatura precisa e il rispetto del principio di precauzione furono fatti preda di una fazione, e da quel momento usati per sostenere posizioni di chiusura anti-scientifiche. La Direttiva 2001/18 infatti  rappresenta un forte inasprimento della regolamentazione sui transgenici. Borghi ha rammentato che oggi per richiedere l’approvazione della coltivazione e commercializzazione di una varietà transgenica è necessario intraprendere un iter burocratico mastodontico, dai costi proibitivi, che dura anni. Un dossier dettagliato deve essere presentato alla Commissione Europea che – quando e se – lo valuterà, lo farà basandosi sulle considerazioni dell’Agenzia Europea di Sicurezza Alimentare (EFSA). Anche di fronte al parere favorevole di quest’ultima, la decisione sull’approvazione può da qui in poi essere rimbalzata diverse volte fra Commissione e Consiglio dei Ministri, che possono richiedere di acquisire ulteriori dati per il dossier, come anche di far effettuare a enti terzi e indipendenti nuove valutazioni di potenziali rischi derivanti dalla coltura transgenica in questione. Se da una parte questo può sembrare un atteggiamento semplicemente molto cauto, ma adottato solo per il bene dei consumatori, è tuttavia utile ricordare che nulla di tutto ciò viene fatto per valutare varietà ottenute con altri metodi, che non coinvolgono le tecniche di DNA ricombinante. Fra questi metodi non transgenici è da ricordare che da decenni utilizziamo metodi di naturale non hanno niente, quali mutazioni indotte da sorgenti radioattive, utilizzo di sostanze chimiche in grado di danneggiare la molecola del DNA (cioè indurre modificazioni genetiche) o di addirittura di modificare l’intero insieme dei suoi geni. Il dott. Piero Morandini, del dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale, ha evidenziato come tutti i metodi appena elencati siano accomunati alla transgenesi dal fatto di agire sui geni, ma che a differenza delle tecniche di DNA ricombinante, si basano su mutagenesi in larga scala dall’esito poco prevedibile. Eppure solo la modificazione transgenica di uno o pochi geni di interesse (in alcuni casi proprio gli stessi che controllano caratteristiche fisiologiche che per secoli sono state selezionate da agricoltori e dai genetisti) continua a essere osteggiata.



Un ulteriore punto da considerare è che se la normativa fosse almeno applicata nei termini in cui è scritta, potrebbe ancora permettere un certo grado di avanzamento tecnologico nel settore. Ma da quando vige la direttiva 118/2001 è stata approvata una sola coltura,  la patata Amflora nel 2010. Quest’ultima, che non era fatta a scopo alimentare, è stata poi ritirata dal mercato nel 2012 a causa del battage pubblicitario negativo. In pratica la politica ha creato una serie di regole, ma ha poi deciso di non seguirle, iniziando invece a usare escamotage e lungaggini (se non addirittura metodi illegali, come l’Italia) per evitare di approvare nuove colture transgeniche per la coltivazione. Astutamente, poiché si sa che senza transgenico si bloccherebbe quasi tutto il settore zootecnico, approvano le importazioni, ma questo non fa altro che aumentare l’ipocrisia ed il nervosismo di chi lavora nella filiera agro-alimentare.

L’assurdità della situazione attuale, sottolineata da tutti i relatori, è che ci troviamo a che fare con una legislazione che non regolamenta un prodotto (colture modificate dall’uomo) ma solo uno dei possibili processi produttivi per ottenerlo che, ironia della sorte, è quello tecnologicamente più avanzato e sicuro, sia per l’uomo che per l’ambiente. Questo atteggiamento istituzionale sembra essere sordo nei confronti degli appelli della comunità scientifica, fra i quali fa piacere citare quello della Prof.ssa Elena Cattaneo, ricercatrice della Statale e Senatrice a vita, apparso recentemente sul Corriere della Sera. I ricercatori di tutta la UE devono poi subire oltre al danno la beffa: nel sostenere le loro posizioni in materia di transgenici si devono vedere descritti dai loro oppositori come scienziati pazzi al soldo delle multinazionali, mentre al contrario iter approvativi così complessi e dispendiosi sono un ostacolo in primo luogo proprio per la ricerca pubblica, ma un vantaggio per i privati che si avvicinano così al monopolio.

E’ un quadro allarmante per l’Europa, dove l’estrema precauzione istituzionale nei confronti di una tecnologia, posizione di per sé legittima, viene mantenuta a discapito del ragionamento scientifico, promuovendo falsità e generando panico nei confronti delle persone, in aperto contrasto con quanto l’Unione sostiene di voler fare in termini di cittadinanza scientifica. La speranza è che convegni o iniziative di altra natura come quello qui descritto possano far ripartire un dibattito da troppo tempo stagnante, ma allo stato attuale delle cose, sembra purtroppo una speranza mal riposta. 

Paolo Dario