«Una riflessione su scienza e umanesimo viene erroneamente vista da molti come espressione di un dilemma: scegliere fra le esigenze della scienza e del progresso oppure, timorosi delle conseguenze di questo progresso, limitare le invadenze della tecnologia allo scopo di poter costruire una società “più umana”. Non di rado, chi difende le ragioni della dignità umana e della sua emergenza (o anche della sua trascendenza) sull’orizzonte della natura, viene collocato dalla parte di coloro che sono chiamati a sostenere l’umano contro la scienza».



Ma c’è un altro modo di affrontare questi temi, c’è un’altra direzione in cui muoversi, più efficace, propositiva e produttiva: è quella indicata da Giuseppe Tanzella-Nitti in uno dei saggi contenuti in Scienze, filosofia e teologia. Avvio al lavoro interdisciplinare, appena pubblicato da EDUSC come primo volume della collana SISRI che raccoglie il lavoro dei seminari della Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare.



La direzione indicata da Tanzella è quella che punta a «valorizzare l’umano nella scienza e non contro la scienza» e che deriva da una riflessione sull’umanesimo scientifico sapienziale. Con questa espressione si indica una prospettiva già seguita da autori come Enrico Cantore, Gualberto Gismondi e Michael Polanyi, ma anche da celebri scienziati come Werner Heisenberg e Theodosius Dobzhansky, per i quali «la conoscenza scientifica della natura è un valore umano in sé, una grande risorsa educativa, fonte di dignità morale e di libertà».

Proviamo quindi a seguire, sinteticamente, i passi di questa riflessione; superando quella difficoltà che solitamente incontra chi propone un approfondimento sulla “dimensione umanistica della scienza”: la difficoltà cioè che nasce dall’idea, purtroppo diffusa, che la conoscenza scientifica, per essere rigorosa, oggettiva e universale debba prescindere da ogni elemento di tipo soggettivo e personale. La dimensione umanistica, dice Tanzella, è vista di solito come «qualcosa che può “accompagnare” il lavoro di chi fa scienza, come quando, ad esempio, ascoltiamo un brano di Mozart mentre facciamo dei calcoli al computer, ma non riguarderebbe l’essenza del lavoro scientifico in quanto tale».



Che le cose non stiano così è però dimostrato sia dai testi di molti grandi scienziati che hanno riflettuto sulla loro esperienza umana come ricercatori, sia dal fatto che molte scoperte e innovazioni hanno «preso avvio da fattori estranei al metodo scientifico propriamente detto, perché causate da conoscenze non formali, dall’intuizione, dalla creatività, dall’originalità o persino dalla visione filosofico-religiosa del ricercatore».

Ma come studiare la presenza e il ruolo di queste dimensioni all’interno dell’attività scientifica e come individuare i contesti scientifici in cui riaffiora la necessità di un riferimento al soggetto? L’autore indica e analizza tre ambiti: epistemologico- gnoseologico, etico-morale, estetico-esistenziale.

Il primo, forte anche di tutta la riflessione filosofica del Novecento, mette in luce come non esistano attività o esperienze scientifiche totalmente “impersonali”: nel fare scienza giocano continuamente tutta una serie di fattori legati allo scienziato, alla sua storia, alle sue esperienze, a tutto ciò che concorre a costituire quella che Polanyi ha genialmente definito come la “dimensione tacita” della conoscenza ma che è un elemento irrinunciabile e determinante sia per le scoperte che per la loro formulazione. Il riferimento alla persona porta con sé il richiamo al nesso, inscindibile anche nel lavoro scientifico, tra conoscenza e volontà e quindi chiama subito in causa il tema della libertà e della continua opzione del soggetto che decide di non imporre le sue idee alla realtà ma di imparare da essa, obbedendole.

Il secondo non riguarda in primo luogo, come normalmente si pensa, la questione delle applicazioni della scienza e delle sue conseguenze sociali: questo, dice Tanzella, è un “aspetto derivato”. C’è un livello più fondamentale che indica l’intrinseca presenza di ethos nell’attività scientifica; è una responsabilità più radicale, che si esprime in ogni momento della ricerca, nelle scelte sperimentali grandi o piccole, nell’interpretazione dei dati, nell’organizzazione della struttura delle teorie.

Infine c’è l’ambito estetico-esistenziale, che si manifesta nelle testimonianze di molti uomini di scienza che non esitano a commentare il loro lavoro e le loro esperienze con espressioni come: mistero, miracolo, percezione dei fondamenti, incontro con l’Assoluto. Il riferimento alla filosofia dell’azione di Blondel è qui particolarmente calzante: per il pensatore francese ogni conoscenza, per essere efficace, necessita di un coinvolgimento del soggetto che riconosce che «il movente dell’azione non giace negli aspetti empirici ma in una libertà che li trascende, resiste ai cambiamenti di paradigma e al progresso delle formulazioni».

Non si può non riconoscere, a questo punto, che alla costruzione e alla pratica di un umanesimo scientifico “sapienziale” la rivelazione ebraico-cristiano può offrire un contributo potente, con i suoi due insegnamenti fondamentali: la dignità della persona creata a immagine di Dio; e la natura razionale e dialogica del mondo, che implica il realismo conoscitivo. Così l’attività scientifica può diventare parte del compito affidato all’uomo di cooperare nella creazione. «E la dignità umana che la cultura e l’attività scientifica realizzano e accrescono è colta, in realtà, come una dignità filiale, non demiurgica né dispotica ma come partecipazione alla regalità del Figlio, Cristo-Sapienza, sulla creazione».