Pubblichiamo il testo, ridotto e rivisto, di un recente intervento dell’autore, astrofisico presso lo Space Telescope Science Institute di Baltimora, in occasione di un incontro con un gruppo di studenti liceali in Usa.

“Perché dovremmo dare i nostri soldi delle tasse a finanziare il vostro lavoro inutile, mentre io ho otto figli da sfamare?”. Così é iniziato il mio primo incontro con un grosso carpentiere americano, padre di una famiglia numerosa, quando gli ho detto che mi sono trasferito negli Stati Uniti per lavoro e che faccio l’astronomo. Una domanda che é come uno schiaffo, che credo ogni astronomo si sia sentito rivolgere almeno una volta, o che difficilmente non si é posto almeno tra sé e sé.



Io l’ho sentita emergere in me molto prima di questo recente episodio americano. Era il 2008 e passavo il mio primo inverno lontano da casa, dalla mia famiglia, dai miei amici e dalla ragazza che poi é diventata mia moglie. Ero partito per la Baviera per lavorare a un progetto di ricerca in uno dei centri europei più importanti per l’astronomia. Il mio lavoro cominciava a prendersi gran parte della mia vita e delle mie energie, e mi costava non poca fatica. Inoltre mi resi ben presto conto per esperienza diretta che tante persone danno la vita alla scienza e che ingenti risorse economiche vengono investite dai governi per finanziare la ricerca e costruire enormi telescopi. Una sera parlavo con un caro amico e collega ed entrambi sentivamo una sorta di disagio: stiamo dedicando la nostra vita all’astronomia, come tanti altri scienziati che lavorano giorno e notte, e con investimenti miliardari vengono costruiti questi grossi “giocattoloni” che sono i telescopi, mentre in questo mondo c’é gente che deve lottare per la pura sopravvivenza. Non sarebbe più giusto usare queste risorse umane e finanziarie per qualcosa di più essenziale, per aiutare a risolvere i problemi di prima necessità, specialmente nei paesi più poveri? Quando il grosso carpentiere americano mi ha posto la sua domanda, mi sono perciò sentito riportare improvvisamente agli inizi della mia storia.



Credo che nessuno nell’ambiente scientifico possa sottrarsi a questo interrogativo, perché siamo uomini prima che scienziati. Durante questi anni mi é capitato spesso di affrontare la questione con colleghi, e ho potuto rendermi conto che ci sono due risposte che vanno per la maggiore. La più frequente: vale la pena spendere soldi in astronomia perché la ricerca scientifica produce progresso tecnologico, che a sua volta migliora la vita di tutti. Recentemente ho partecipato a un seminario in cui un dirigente della Nasa é venuto a mostrarci una serie di innovazioni tecnologiche che hanno trasformato la nostra vita quotidiana e che sono nate dalla ricerca fatta internamente alla Nasa. Un elenco impressionante, che va dalla forma aerodinamica dei camion fino alle macchine fotografiche miniaturizzate che sono installate in ogni iPhone.



Sebbene questa sembri oggi la risposta più spendibile ed efficace nei confronti dell’opinione pubblica, la trovo astratta e inadeguata, specialmente se data da un astronomo come me e come molti dei miei colleghi. Infatti, la nostra ricerca scientifica non produce alcuna tecnologia che migliori la vita delle persone che la pagano.

Una seconda risposta è che la ricerca in astronomia ci permette di capire di più noi stessi e l’Universo in cui viviamo. Questa posizione mi sembra più corrispondente alla effettiva ricerca di molti scienziati. Io, ad esempio, studio la presenza d’acqua nelle zone in cui si formano i pianeti. La mia ricerca è connessa al capire i processi che hanno permesso di avere acqua su un pianeta come la Terra, e può quindi considerarsi legata ad una questione vitale anche per un carpentiere.

Eppure, anche quando il metodo scientifico riesce a svelare qualcosa di interessante sull’uomo e sul mondo, non ne sa cogliere proprio gli aspetti più essenziali. Trattando d’acqua, si può infatti dimostrare con un conto semplicissimo che mio figlio ne é costituito in gran parte. Eppure, la scienza non sa spiegare nulla del mistero del suo essere nato ed esistere. Sebbene dunque queste due risposte diano un contributo a livelli diversi al problema posto dalla domanda, credo che entrambe ne restino alla superficie. Non si tratta semplicemente di dover convincere altri a riguardo di un giusto utilizzo di soldi delle tasse. Se nel rispondere, lo scienziato non affronta per sé la domanda “vale veramente la pena spendere la mia vita per la ricerca?”, io credo che si perda il cuore del problema.

Giungere a un’intuizione della risposta per me ha richiesto un cammino di maturazione di anni. E per spiegarmi, non posso che riproporre il cammino stesso che ho fatto io, anche se molto in breve. Non sono nato con il chiodo fisso dell’astronomia, e ricordo bene l’istante in cui ho deciso di avventurarmi in questa strada. Durante una lezione in università ho visto la fotografia di un gruppo di telescopi alle Hawaii, bianchi occhi giganti puntati al cielo dalla cima di un vulcano a 4200 metri. Ricordo confusamente quell’immagine e, più chiaramente, un pensiero: “io lì ci devo andare”. Mi folgorava l’idea che se qualcuno aveva intrapreso l’immenso sforzo di costruire quei giganti in un posto così remoto, doveva esserci stato un motivo altrettanto grande.

Da quel momento non mi ha più abbandonato un’attrazione per i telescopi e per la loro storia, che mi ha portato ad un’intuizione semplice ma definitiva. A partire dalle prime osservazioni di Galileo nel 1600, che si costruì un rudimentale cannocchiale con lenti di pochi centimetri, passando poi da Herschel e Lord Rosse nel 1700-1800 (per citarne solo alcuni), che fecero costruire telescopi da 1-2 metri di diametro sostenuti da impressionanti strutture di 20 metri prima in legno poi in pietra, per arrivare fino ai grandi telescopi del 1900, tra cui spicca l’Hale Telescope da 5 metri in California, c’é un filo che lega la loro storia.

Dietro ad ogni telescopio c’era un uomo, e secolo dopo secolo i telescopi diventavano più grandi perché questi uomini non erano mai soddisfatti delle dimensioni raggiunte. Volevano di più, volevano vedere più a fondo nel cielo, quel che raggiungevano non bastava mai. Queste caratteristiche parlano inequivocabilmente di una cosa: il desiderio. Il cuore della storia dei telescopi é una proiezione del desiderio dell’uomo lungo la storia. E penso che non sia casuale che gli uomini non abbiano trovato una parola più adeguata di “desiderio” (dal latino de – sidera, cioè “dalle stelle”, “dai cieli”) per dare un nome a questa strana voce che ci troviamo nel cuore fin dalla nascita.

Perché dunque fare astronomia con tutto quello che comporta di investimenti e di energie umane? Semplicemente perché desideriamo. Perché abbiamo dentro di noi un innato legame con il cielo e le stelle, un infinito desiderio e un desiderio dell’infinito. E perché siamo stati fatti per cercarne la risposta. Così l’astronomia ci ricorda anche oggi che l’uomo é fatto per un “oltre”, per qualcosa che sfugge alle leggi del mercato nei cui termini è sì inutile. L’uomo è uno strano animale, per usare parole di Chesterton nel suo Everlasting Man, che certo dipende dalle necessità primarie come il nutrirsi, al pari degli altri animali. Eppure, non basta all’uomo mantenere le sue funzioni vitali e sopravvivere. L’uomo desidera vivere, e vivere appieno. Anche in momenti in cui la soddisfazione dei bisogni primari é drammaticamente limitata, l’uomo sa che c’é qualcosa di più importante ed è capace di gesti inspiegabili in cui afferma questo “altro”.

C’é una frase suggestiva di tutto ciò che ho detto, una frase che ho letto anni fa e che mi ha accompagnato fin qui. Viene da Citadelle, scritto da A. de Saint-Exupéry. Dice all’incirca così: “quando vuoi costruire una nave, non cominciare dal raccogliere il legno, tagliarlo in tavole, e dall’assegnare compiti e lavori; piuttosto risveglia nel cuore degli uomini il desiderio del mare ampio e infinito”. Tuttora, non trovo parole più adeguate per cercare di esprimere ciò che mi ha portato e mi tiene in astronomia.

E il carpentiere? Da allora siamo diventati grandi amici.