Accade spesso nella ricerca scientifica che modelli e teorie che sembravano consolidate e soddisfacenti, a seguito di nuove osservazioni e scoperte richiedano di essere riformulate e riviste, a volte anche radicalmente. E nella fase intermedia, quando la vecchia teoria inizia ad essere messa in crisi e la nuova ancora non riesce a imporsi, regna un clima di incertezza e di confusione non sempre facile da dominare. C’è chi parla addirittura di caos, come fa Ann Finkbeiner in un recente articolo su Nature dove descrive la situazione che si è creata per le teorie che spiegano la formazione dei sistemi planetari. Ripercorriamo la sua analisi.



Verso la metà degli anni ’90 del secolo scorso, c’era una teoria brillante che utilizzava pochi principi basilari di fisica e di chimica per rispondere alle principali domande sul nostro Sistema Solare: perché i pianeti orbitano attorno al Sole tutti nello stesso verso? Perché le loro orbite sono quasi circolari e giacciono sul piano equatoriale della stella o in piani vicini? Perché i quattro pianeti interni (Mercurio , Venere, Terra, Marte) sono piccoli, densi e fatti principalmente di rocce e ferro, mentre quelli esterni (Giove. Saturno, Urano, Nettuno) sono enormi, gassosi e fatti per lo più di idrogeno e elio?



La teoria prevedeva un modello standard di formazione dei pianeti, detto modello dell’accrescimento del nucleo (core accretion model): si inizia con la contrazione del gas interstellare per formare, sotto l’effetto della gravità, un nebuloso disco rotante con un denso nucleo centrale dove temperatura e pressione aumentano fino a livelli tali da innescare la reazione termonucleare che accende la stella (per il nostro Sole ciò è accaduto circa 4,6 miliardi di anni fa). Gli elementi pesanti presenti nel disco condensano formando dei grumi che nella parte più interna del disco contengono materiali con alto punto di fusione, come rocce e ferro, mentre nella parte più esterna contengono sostanze ghiacciate come acqua, metano e ammoniaca. Da questi grumi hanno origine i cosiddetti planetesimi che continuano ad aggregare materiale e a crescere fino ad assumere la struttura e il movimento dei pianeti che conosciamo, con tutte le loro differenze e specificità.



I problemi sono cominciati con la scoperta dei sistemi planetari attorno ad altre stelle, i cosiddetti esopianeti, da tempo immaginati e ipotizzati ma rilevati con evidenza certa a partire dal 1995. La stranezza, ad esempio, dell’esopianeta 51 Pegasi b sconvolgeva gli schemi dei planetologi: il pianeta mostrava una massa 150 volte maggiore di quella terrestre (e quasi la metà di Giove) e ciò lo collocava nel gruppo dei pianeti giganti che dovrebbero stare su orbite più esterne; tuttavia, la sua orbita era a una distanza dalla stella di appena 7,5 milioni di km, quasi un decimo di quella di Mercurio dal Sole: a quella distanza, la temperatura del gas del disco protoplanetario durante la fase di formazione poteva toccare i 2000 kelvin, evidentemente incompatibile con la presenza di sostanze ghiacciate. Un pianeta così, e gli altri simili, hanno richiesto una nuova classificazione, che li definisce come del tipo Hot Jupiter, Giove bollente.

La Finkbeiner cita altri esopianeti “strani”: come WASP-7b, che orbita attorno ai poli della stella invece che all’equatore; o HD 80606b la cui orbita è fortemente ellittica; o ancora HAT-P-7b, il cui verso di rotazione è opposto a quello della stella. 

Poi è arrivato il satellite Kepler, lanciato dalla Nasa nel marzo 2009 e dedicato proprio alla ricerca di pianeti extrasolari, che, nonostante l’incidente dello scorso anno, continua la sua missione accumulando scoperte. L’archivio online del Nasa Exoplanet Science Institute elenca 1737 pianeti confermati, indicando per ciascuno il metodo della scoperta, i dati orbitali e una serie di altre misure; lo stesso sito contiene un database con 4234 candidati nuovi pianeti. Molti dei pianeti riconosciuti mostrano delle stranezze rispetto al modello standard e gli scienziati di Kepler li hanno raggruppati in tre tipologie: hot Jupiter, pianeti giganti eccentrici e superTerre. C’è quindi il difficile compito di trovare un nuovo modello di formazione planetaria che tenga conto di questa varietà e diversità.

Le idee non mancano. Per spiegare gli hot Jupiter si pensa a un movimento a spirale che porta il proto pianeta verso la stella e poi a un certo punto si interrompe lasciandolo a orbitare vicino al centro, mentre la sua forte attrazione gravitazionale impedisce la fuga dei gas. 

Per i Giganti, entrerebbero in gioco le interazioni gravitazionali reciproche che rilancerebbero i pianeti verso le orbite eccentriche. Più difficile spiegare le superTerre. Mentre c’è chi tenta di disegnare modelli che comprendano tutte le tre situazioni indicate e la strada è quella di ipotizzare dischi iniziali con grande varietà al loro interno e frequenti migrazioni di masse da una zona all’altra del disco.

La domanda più intrigante, secondo l’articolo di Nature, resta quella di come mai il nostro Sistema Solare sia così diverso. Ma forse per trovare risposte convincenti servono ancora molti dati e molte osservazioni. E i programmi non si fanno attendere. La Nasa ha in cantiere la missione Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), che dovrebbe partire nel 2017; mentre l’Agenzia Spaziale Europea ha scelto la missione PLATO, attribuendole come tema centrale la ricerca della condizioni per la formazione dei pianeti e per l’emergere della vita. Per il lancio bisognerà però aspettare otto o dieci anni. Nel frattempo gli astrofisici potranno elaborare nuovi e più immaginifici modelli.