Per costruire oggetti e apparecchiature direttamente sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) non c’è bisogno di trasportare un’intera fabbrica nello spazio: basta una stampante 3D. Sotto questa denominazione, che indica molto di più di una semplice evoluzione della stampante del nostro pc, si trova uno dei sistemi più rappresentativi dell’attuale fase dell’high tech; un sistema destinato probabilmente a trasformare il mondo della produzione e lo stesso concetto di industria. Questi nuovi sistemi – che non si sa se classificare come strumenti, macchine, impianti, linee di produzione – consentono di realizzare gli oggetti che finora uscivano in serie dalle linee di assemblaggio delle fabbriche, anche in pezzi unici, ottenuti con una varietà di processi che portano a depositare il materiale, liquido o in polvere, in tanti strati sottili secondo le indicazioni ottenute via software da speciali programmi di design. Qui sul pianeta Terra si stanno moltiplicando le loro applicazioni e gli utilizzi nei più diversi contesti. Ma le stampanti 3D sono l’ideale per una situazione come quella di una stazione spaziale, o di una futura colonia sulla Luna o su un altro Pianeta: poco ingombro, struttura compatta e possibilità di realizzare singoli prodotti. E infatti i centri di ricerca collegati alle Agenzie spaziali stanno lavorando intensamente per mettere a punto prototipi di stampanti 3D che possano rispondere adeguatamente alle esigenze e alle condizioni operative dell’ambiente spaziale. La SpaceX (Space Exploration Technologies Corporation), l’azienda per i trasporti spaziali fondata nel 2002 da Elon Musk, la prima compagnia privata ad aver inviato un veicolo sulla ISS, ha recentemente dichiarato di aver già impiegato componenti realizzati con 3D Printer: il missile Falcon 9, lanciato nel gennaio scorso, aveva incorporato in una dei sui nove propulsori una valvola MOV (Main Oxidizer Valve) costruita con una stampante 3D. Gli ingegneri della SpaceX stanno lavorando da tre anni a questo tipo di produzione e sembra che la valvola abbia superato il test, funzionando a dovere con l’ossigeno liquido ad alta pressione e resistendo alle temperature criogeniche e alle potenti vibrazioni.
La Nasa non è da meno in questa nuova competizione spaziale. Gli scienziati del JPL, il Jet Propulsion Laboratory di Pasadena (California), ci stanno lavorando dal 2010 e nei giorni scorsi hanno annunciato di aver raggiunto un importante traguardo verso la piena operatività della stampa 3D in campo spaziale. Il problema da risolvere riguardava le proprietà dei materiali. Per molte parti dei veicoli spaziali c’è l’esigenza di garantire certe caratteristiche che finora le stampanti 3D non potevano assicurare: una parte potrebbe avere un’elevata temperatura di fusione e un’altra una bassa densità, una parte potrebbe essere magnetica e un’altra no. Certo, si potrebbe fare separatamente le due metà dell’oggetto con i rispettivi metalli e poi saldarle insieme. Ma la saldatura stessa può rivelarsi fragile tale da non sopportare gli stress cui l’oggetto sarà sottoposto in certe situazioni; è con un’astronave non ci si può permettere di rischiare.
La soluzione trovata al JPL, in collaborazione con gli scienziati dei materiali della Pennsylvania State University, ha preso spunto da una speciale tecnica già impiegata nella preparazione del rover Curiosity che è atterrato su Marte nel 2012. Ne è nato un progetto per ottenere che una stampante 3D potesse operare con leghe di più metalli, permettendo la transizione continua da una lega all’altra. Il processo standard di una 3D Printer è stato modificato in modo da consentire di cambiare costantemente la composizione dei materiali, cambiando il mix delle polveri durante la stampa. Nelle nuova tecnica gli strati di metallo vengono depositati su una barra rotante ma la transizione dei metalli avviene dall’interno verso l’esterno e non aggiungendo gli strati uno sull’altro dal basso verso l’alto. Un laser provvede a fondere la polvere metallica per creare gli strati. Leghe di questo tipo, dette a gradiente, erano già state realizzate in via sperimentale; ma quello del JPL è il loro primo utilizzo pratico nella fabbricazione di oggetti. La tecnica sembra funzionare, e apre la strada allo studio di una vasta gamma di potenziali leghe; promettendo grandi risultati non solo per l’industria spaziale ma anche per quelle “terrestri”, come l’automotive o l’aeronautica.