Paradossalmente conosciamo di più per conoscenza diretta la Luna e Marte di quanto non conosciamo l’interno della nostra Terra. L’esplorazione delle profondità terrestri è uno dei temi del congresso “The Future of the Italian Geosciences”, il congresso congiunto della Società Geologica Italiana e della Società Italiana di Mineralogia e Petrologia, in corso in questi giorni a Milano. Sono molti però i temi sul tappeto e tanti gli ambiti interessati ad un loro approfondimento: dalla scuola, alla gestione del territorio, alla produzione energetica. Ne abbiamo parlato con Elisabetta Erba, docente all’Università degli Studi di Milano e presidente del Congresso.   



Scorrendo il programma del convegno balza agli occhi l’immagine di una geologia che sta cambiando: per le tematiche affrontate, per lo svilupparsi di nuove discipline e per l’ampiezza delle interazioni con altri ambiti. È così?  

Sì. Uno degli sforzi che abbiamo fatto nell’organizzare questo convegno è stato di cercare di raccogliere più punti di vista, più prospettive, di uno stesso argomento; nel senso di cercare di integrare le conoscenze specifiche e di farle convergere verso punti comuni. Indubbiamente stiamo assistendo a un’evoluzione, anche molto rapida, delle varie discipline che compongono il panorama attuale della geologia e in diversi casi incontriamo argomenti molto nuovi e innovativi. 



Possiamo fare qualche esempio?

Penso agli studi sull’interno della Terra, in particolare a come i fluidi presenti nelle profondità del Pianeta possano influenzare la nostra vita. Penso al grande tema dell’acqua: in generale, cioè, a quanto la geologia sia importante per avere un quadro completo dei rischi e delle esigenze di prevenzione; e in particolare a un tema come quello della qualità delle acque, tuttora di attualità e legato , tra l’altro, a tutto quanto si svilupperà attorno all’Expo 2015. Alcuni temi sono ancora poco sviluppati anche per problemi di logistica. Mi riferisco ad esempio allo studio delle aree polari, che non sono certo territori facili da esplorare. In altri casi c’è ancora bisogno di avanzamenti e di nuove soluzioni sul piano puramente tecnico. Si pensi alla geologia marina, che ormai richiede navi e apparecchiature sempre più avanzate; per non parlare delle perforazioni oceaniche.



Un argomento che tocca molto l’opinione pubblica e coinvolge diverse discipline è quello dei cambiamenti climatici. Quale contributo può venire dalla geologia?

È significativo che nel convegno in corso la sessione sul clima sia quella col maggior numero di contributi pervenuti a seguito di altrettante ricerche in atto. Il geologo può contribuire sui tre livelli del problema: raccogliendo quanto sappiamo dal passato (paleo clima); monitorando la situazione all’oggi e indicando cosa siamo in grado di prevedere. Ancora oggi c’è una notevole divisione tra chi si occupa del clima attuale e chi studia il paleoclima; abbiamo due scale temporali molto diverse. È importante allora che si inizia a dialogare tra chi fa i modelli   e chi elabora i dati dal passato. Il contributo della geologia è fondamentale perché è l’unico modo per avere una copertura a larga scala e a lungo termine. Col dato geologico è difficile recuperare informazioni con la precisione dell’anno o della decade relativamente ai periodi preistorici, come quelli di 300 milioni di anni fa quando c’è una situazione da super effetto serra, con temperature molto più elevate delle attuali. Però il geologo può fornire a chi fa modelli climatici dei casi di studio di cambiamenti climatici del passato, di aumento della CO2 e delle relative risposte degli ecosistemi, perché i fossili ci permettono di ricostruire i mutamenti dell’ambiente e l’adattamento o il non adattamento dei sistemi viventi.

Un altro punto di interesse generale, specialmente in Italia, è quello del dissesto idrogeologico: qui c’è ancora tanto lavoro di ricerca, ci sono grosse lacune conoscitive da colmare o è solo questione di gestione e decisioni politiche?

C’è sicuramente necessità di far ricerca e c’è spazio per nuovi studi. I gruppi di ricerca all’opera sono molti e abbiamo anche delle eccellenze in Italia sia nell’idrogeologia che nello studio del rischio connesso. Più che un problema di lacune da colmare c’è una questione di coordinamento tra i vari soggetti. Manca, di fatto, un punto centrale che funga da coordinamento organico. Quanto ai risultati nelle situazioni concrete, qui penso proprio che la responsabilità sia dei decisori, che dovrebbero far tesoro delle informazioni fornite dagli idrogeologi per attuare scelte adeguate. 

 

Le novità non riguardano solo i temi ma anche i metodi e gli strumenti di indagine in geologia: è passata l’epoca del geologo con scarponi, martello e lente?

L’esplorazione classica non può cessare, quella del geologo che va sul territorio e tocca con mano le rocce, misura i terreni, osserva con cura tutti i dettagli dei fenomeni. Certo è che oggi l’impiego di apparecchiature e metodologie avanzate sta assumendo un ruolo enorme. Basti pensare a tutti gli strumenti per il monitoraggio ambientale, o più specificamente di alcuni fenomeni come i terremoti o i vulcani. Tante nuove interpretazioni, tante teorie, come la stessa tettonica delle placche, si giovano ampiamente ad esempio del contributo dei satelliti, che riescono a misurare con precisione millimetrica gli spostamenti delle placche e addirittura ci aiutano a comprendere l’interno della Terra, con la tomografia sismica.

 

Lei prima ha accennato alle perforazioni oceaniche; anche qui sarà la tecnologia a dare un contributo decisivo?

Sì. Ci aspettiamo molto da un grande progetto che punta nientemeno che alla perforazione dei fondali fino a raggiungere il mantello attraversando la ben nota discontinuità di Mohorovicic. È stata individuata l’area adatta per la perforazione dove la costa è più sottile, anche se parliamo sempre di qualche chilometro e in quelle condizioni di temperatura e pressione la perforazione rappresenta un’impresa ingegneristica colossale. Ne ha parlato ieri con entusiasmo il collega francese Benoit Ildefonse, dell’università di Montpellier, uno dei proponenti del progetto M2M (MoHole to the Mantle), che ha indicato in una decina di anni il tempo previsto per arrivare al traguardo.

 

Avete parlato anche di geologia spaziale: è solo una curiosità o c’è qualcosa di più?

Ci sono alcuni geologi italiani che si stanno dedicando all’esplorazione geologica dei pianeti, tanto che nella Società Geologica Italiana c’è una sezione di Geologia Planetaria. Sono ricerche in parte spinte dalla suggestione della possibile colonizzazione umana del Sistema Solare ma più in generale esemplificano la tensione dell’uomo ad ampliare sempre più la conoscenza dell’ambiente che lo circonda. Ci ha stupito il numero di contributi pervenuti al convegno su questi argomenti: c’è addirittura una presentazione dal titolo “il rischio geologico sugli altri pianeti”. Vorrei sottolineare la reciprocità delle relazioni tra geologia terrestre e planetaria: è necessaria una miglior comprensione dei processi che sono avvenuti e avvengono sulla Terra per tentare di capire processi analoghi, o magari molto differenti, che hanno modellato i Pianeti. Ma è anche vero che alcune scoperte di geologia planetaria possono aiutare a chiarire le dinamiche di alcuni fenomeni terrestri ancora misteriosi: è il caso recente delle nuove ipotesi interpretative di alcuni “duomi” (elementi strutturali rocciosi di forma emisferica, ndr), elaborate a seguito della scoperta di configurazioni simili su Marte.