Il geografo francese Michel Lussault in un articolo dal titolo “Sulla geologistica contemporanea” comparso su Lexia, Rivista di semiotica del 2011, affermava che “lo spazio umano e la spazialità nascono da un lavoro delle società su se stesse” e che “lo spazio non è una esteriorità, ma una traccia delle attività che preesiste ad ogni evento”.



Credo che la prima percezione dello spazio per l’essere umano coincida con l’appartenenza al ventre materno, cioè ad un luogo che accoglie la vita e la nutre per alcuni mesi fino alla nascita del feto. La sua configurazione è il luogo ideale per la crescita dell’individuo, ha una dimensione proporzionata e assolve tutte le funzioni atte a garantirgli la crescita.



È dunque l’embrione il primo esploratore intelligente del grembo materno e quindi dello spazio umano, ma, quando ne sarà uscito, rimarrà nella sua memoria qualche connotazione dell’alveo in cui è rimasto per nove mesi? Dalla letteratura esaminata sembra che le attenzioni maggiori per la conoscenza della vita prenatale siano dedicate soprattutto ad aspetti psicologici e medici: l’udito e l’olfatto risultano essere i primi sensi sviluppati dal feto e, afferma Ambrogio Cozzi, psicoterapeuta, “c’è la possibilità di una memoria e di una relazione tra i suoni ascoltati in fase intrauterina e le reazioni a certi suoni, una volta nati”. Dalla nascita in poi, l’individuo percepisce il rapporto tra sé e lo spazio circostante secondo dinamiche estremamente varie e complesse. Ad esempio, la suddivisione tra ambiente naturale e artificiale avviene attraverso l’evoluzione della cultura dell’individuo, cioè di “una traccia delle attività che preesiste ad ogni evento”. Progressivamente, attraverso la propria mobilità territoriale, l’essere umano percepisce il rapporto con la realtà spaziale a partire da categorie di giudizio determinate da fattori di ordine culturale, scientifico, economico, climatico, paesistico, estetico.



Lo spazio abitativo: l’appartamento, l’edificio, il quartiere; lo spazio di percorrenza quotidiana, da casa al lavoro; lo spazio di coercizione: la cella del carcere; lo spazio sacro di culto o di preghiera: la Chiesa, il Tempio, la Moschea, la Sinagoga, il Convento; lo spazio dove si esprime la centralità e lo spazio della periferia, lo spazio delle vacanze, spesso, tutto da esplorare, ma anche lo spazio della divagazione del pensiero e lo spazio di valutazione delle connessioni tra gli eventi che si osservano, lo spazio del silenzio. Il fattore determinante la conoscenza della superficie terrestre può essere considerata la “semiotica dello sguardo”, ossia l’apertura mentale che connette i segni presenti sul territorio con la capacità di giudizio dell’essere umano nel contemplarli e costruisce così la spazialità personale di cui parlano Husserl e Heidegger. Ma, in questa semplificazione nella lettura degli spazi di uso quotidiano è completamente assente l’idea di percepirsi come appartenenti alla totalità dello spazio conosciuto, cioè all’Universo.

Chi lavora in fabbrica o coltiva i campi o cucina il cibo in un ristorante, o stampa i quotidiani, o ripara le auto o le biciclette, o gioca a basket, o è in cura in un letto di ospedale, difficilmente riesce a percepire la “logistica” del proprio corpo in un ambito più vasto del luogo stesso in cui svolge la propria attività giornaliera. È come dire che l’umanità vive e si sviluppa in una cultura dello spazio estremamente ridotta, individuata soprattutto dal raggio di azione della propria esperienza diretta. Ne consegue che una relazione con l’ambiente così costruita elimina le connessioni fondamentali con l’Universo, di cui la Terra è parte; e, soprattutto, elimina e censura l’evento creativo dell’Universo stesso, quindi la ricerca della sua ragione di essere. La scuola, in generale, e la Geografia, in particolare, sono generosi strumenti di informazione circa la composizione dell’Universo conosciuto, considerato, spesso, una pura anche se affascinante curiosità. Si enunciano alcune teorie relative alla sua presunta origine, ma non si pone mai l’accento sul significato dell’origine stessa e sulla necessità di avere un orizzonte culturale meno polarizzato sul Pianeta e più profondamente connesso con tutta la realtà conosciuta, che non appartiene solo agli astronomi e agli astrofisici, ma che è totalmente connaturata con la dimensione spaziale del Pianeta. Insomma, la cultura dello spazio necessita di maggiori attenzioni e approfondimenti, perché, paradossalmente, noi che viviamo in questo frammento microscopico della Via Lattea, siamo i “portatori del significato dell’Universo”; siamo, cioè, coloro che, utilizzando telescopi sempre più avanzati sul piano tecnologico, ne stanno esplorando porzioni sempre più vaste, costellate da spettacolari visioni di corpi celesti. Lo stupore che ci pervade attraverso lo sguardo impone domande essenziali sul senso di ciò che vediamo. Lev Tolstoj, nel suo trattato autobiografico Confessione del 1882, sosteneva che “Perché un uomo possa vivere, egli deve, o non vedere l’infinito oppure avere una spiegazione del senso della vita per cui il finito venga eguagliato all’infinito”.

All’interno delle osservazioni sopra accennate è interessante soffermarsi anche sulla modalità tecnica e culturale, tramite la quale avviene la transizione da uno spazio all’altro: spesso è considerata tempo perso, non una spazialità attraversata, come se l’individuo non desiderasse osservare e conservare nella memoria la mutazione di un luogo con tutte le sue peculiarità, ma preferisse soltanto il punto di arrivo come status ottimale. Per tutti gli esseri umani nascita e decesso sono i momenti più drammatici della transizione, caratterizzati entrambi da un’aspettativa colma di fascino e di paure insieme: nel primo caso è la vita che si comunica nel luogo in cui avviene l’evento, nel secondo convergono miriadi di ipotesi distribuite tra coordinate di paure, di tristezza, di ineluttabilità, di indifferenza talora, ma anche di speranza, di desiderio di verità, di luce, di continuità. Da quest’ultima ipotesi nasce l’idea dello spazio dell’al di là, in cui ognuno disegna immagini fantasiose, utili anche per la generazione di film, di racconti di fantascienza, di ipotesi surreali…

È uno spazio al di là della vita sperimentata, cioè inventato e derivato dal bisogno di continuità, di miglioramento delle condizioni vissute, uno spazio da cui siano bandite la sofferenza, il dolore, la fatica, la guerra, la malattia, un luogo per soddisfare il bisogno ideale di equilibrio di sé e di tutti coloro che vi saranno accolti, ma anche uno spazio in cui sia possibile incontrare la verità nella sua essenza. Potremmo porci la domanda: se questa è davvero l’esigenza fondamentale degli esseri umani, come potrà la realtà deludere tale aspettativa?