A trent’anni dalla scoperta dei superconduttori ad alta temperatura critica (Tc), restano ancora in gran parte ancora inspiegabili teoricamente alcune loro proprietà chimiche e fisiche, riassumibili nel cosiddetto “effetto di prossimità”, che li rendono così diversi dai superconduttori “tradizionali”. Sono connesse al rapporto tra superconduttività e magnetismo, la cui avversione reciproca è ben nota ed è all’origine della levitazione quantistica, nota come effetto Meissner, per cui un superconduttore respinge sempre una calamita, qualunque sia la sua orientazione.
Ma questa repulsione avviene a distanza. Meno chiaro è invece ciò che accade se il magnete e il superconduttore sono posti in contatto diretto, cresciuti l’uno sull’altro così da avere una interfaccia perfettamente liscia su scala atomica. Ora, uno studio condotto da ricercatori del Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano, dell’Istituto SPIN del Cnr e della Federico II di Napoli sembra chiarisce i meccanismi microscopici dell’effetto di prossimità.
Studiando come un superconduttore ad alta temperatura a base di rame e ossigeno viene modificato dalla deposizione di un sottilissimo film di materiale ferromagnetico a base di manganese e ossigeno, si è visto che, in tali condizioni, il materiale magnetico riesce ad abbattere parzialmente la barriera di super-correnti che solitamente protegge il superconduttore dai campi magnetici e lo magnetizza; con la conseguenza che le sue proprietà superconduttive ne soffrono e la sua temperatura critica si abbassa.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati a fine novembre scorso su Nature Communications in un articolo che ha come primi firmatari Giacomo Ghiringhelli, del Politecnico di Milano e Gabriella Maria De Luca del Cnr e della Federico II di Napoli, con la quale abbiamo approfondito il tema.
Come è nata la vostra ricerca?
Volevamo capire bene la relazione tra superconduttività e magnetismo, in quanto si tratta di due fenomeni incompatibili; in particolare nel caso dei superconduttori cosiddetti ad alta temperatura critica, cioè con quei materiali della famiglia dei cuprati (a base di ossidi di rame, ndr). In effetti, i composti-madre di questi superconduttori (quelli da cui si ottengono i superconduttori attraverso il drogaggio) hanno una struttura a piani ordinati di tipo anti-ferromagnetico; questo ordine anti-ferromagnetico a lungo range generalmente si perde col drogaggio e così i materiali diventano superconduttori. In precedenza avevamo visto su alcuni superconduttori che applicando un campo magnetico perpendicolare al piano responsabile della superconduttività, si osservava un debole ferromagnetismo tra i piani; il che indicava che sul rame ci sono degli spin che tra piano e piano si accoppiano ferromagneticamente.
Qual era quindi il problema?
Altri studi mostravano che quando si interfaccia un superconduttore con un ferromagnete la sua temperatura critica viene fortemente abbassata. È proprio la presenza del ferromagnete a ordinare in qualche modo gli spin del rame e a determinare la diminuzione della temperatura. Ciò era stato visto per sistemi come l’YBCO – ossido di ittrio bario e rame, il primo composto scoperto come superconduttore ad alta Tc – abbinato a una manganite: sarebbe proprio questa, essendo fortemente ferromagnetica, a indurre il fenomeno nel legame rame, ossigeno, manganese.
È quello che viene denominato “effetto prossimità”: di che si tratta?
Sì. In realtà sapevamo che sul rame c’è già uno spin, perché l’avevamo visto, ma abbiamo cercato di considerare un aspetto più generale: anziché usare l’YBCO, abbiamo preso un composto di stronzio rame ossigeno in modo che, mettendo il ferromagnete, non si creava il legame diretto rame ossigeno manganese perché tra rame e manganese c’erano più strati che lo impedivano. Il nostro studio ha dimostrato che questo accoppiamento di tipo magnetico è indipendente dal legame diretto, cioè c’è sempre.
Che tipo di esperimenti avete condotto?
Abbiamo fatto esperimenti utilizzando la luce di sincrotrone, che è quella radiazione emessa da un pacchetto di elettroni in moto a velocità relativistiche quando vengono deflessi dalla loro traiettoria rettilinea tramite un campo elettromagnetico esterno. Abbiamo applicato due tecniche: il bipolarismo magnetico circolare, che permette di conoscere in modo molto preciso l’ordine dello spin e del momento orbitale; e il bipolarismo lineare, che dà più informazioni esclusivamente sull’ordinamento orbitale dell’elemento che si sta investigando. Con queste tecniche siamo riusciti a vedere quale era la risposta magnetica sia sul rame che sul manganese.
La vostra ricerca è frutto di una collaborazione più ampia: con chi avete lavorato?
Nel nostro gruppo dell’Istituto SPIN del Cnr e del Dipartimento di Fisica della Federico II di Napoli anzitutto abbiamo collaborato col professor Giacomo Ghiringhelli del Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano, uno dei massimi esperti nelle misure con luce di sincrotrone. Per queste ci siamo rivolti a una delle principali facility operanti in Europa e cioè il Sincrotrone ESRF di Grenoble. Inoltre ci siamo avvalsi delle risorse dell’Università di Twente nei Paesi Bassi per la strumentazione di crescita dei campioni e del Laboratorio Nazionale di Oak Ridge negli Usa per la caratterizzazione microscopica con risoluzione atomica.
I materiali che avete impiegato sono potenzialmente utilizzabili per lo sviluppo dell’elettronica con gli ossidi (oxide electronics), cioè quella che punta a realizzare dispositivi elettronici, anziché con il silicio, con ossidi di metalli di transizione. È una prospettiva interessante: a che punto siamo?
Con lo sviluppo dell’oxide electronic si cerca di superare le problematiche critiche legate al silicio; in particolare il fatto che col silicio non si riesce a scendere sotto un certo limite di miniaturizzazione dei dispositivi elettronici. Il nostro gruppo ad esempio ha scoperto che dei materiali come gli ossidi, anche appartenenti a una stessa classe ad esempio due isolanti o due antiferromagnetici – quando sono accoppiati, all’interfaccia presentano proprietà nettamente diverse: addirittura del tipo che due isolanti all’interfaccia sono superconduttori.
Quello che è interessante nell’oxide electronics è che si riesce a scendere a scale piccolissime, e l’idea è di riuscire a controllare al massimo queste interfacce per arrivare ad avere dispositivi più piccoli possibile, dell’ordine di grandezza quasi atomico.
Il cammino però è ancora arduo: la fisica delle interfacce è abbastanza complessa e sono necessari numerosi studi per capire bene come controllare le singolari proprietà che si determinano all’interfaccia.