“Il tema dell’acqua è una significativa lente di ingrandimento dei problemi che lo sviluppo comporta”: non lo dice un economista ma un ingegnere, docente di Costruzioni Idrauliche e di Idrologia all’Università di Padova, ma anche alla Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna dove dirige il Laboratorio di Ecoidrologia. Nei giorni scorsi ha approfondito il suo punto di vista intervenendo al convegno internazionale “Acqua e sviluppo” presso la Fondazione Eni Enrico Mattei (Feem) e ha poi ripreso i contenuti principali della sua ricerca parlandone a ilsussidiario.net.



Punto di partenza è un concetto ben noto in ecologia ma ancora poco frequentato dal grande pubblico (e dai politici): quello di beni e servizi ecosistemici. «Per beni e servizi degli ecosistemi si intende l’insieme delle attività, dei prodotti, delle funzioni che possono essere utili all’uomo e che un ecosistema svolge da solo. Si pensi, per stare nel campo idraulico, a un bacino che filtra l’acqua producendo acqua pulita. Ma gli esempi sono molteplici. Si parla molto della possibilità di sequestrare l’anidride carbonica presente in atmosfera, per contribuire alla riduzione del riscaldamento globale: ebbene, le foreste lo fanno da sole, è un servizio che ci viene dato gratis. Oppure la filtrazione dell’acqua piovana che viene restituita dalle sorgenti gratuitamente. Sono tutte cose date per scontate e che di conseguenza vengono considerate senza prezzo».



Ci sono diverse tipologie di servizi ecosistemici, tra i quali anche quelli detti servizi culturali; è il caso della bellezza di un luogo che può diventare un bene prezioso: «se io affitto una casa, il suo valore cambia sensibilmente a seconda che si affacci su un hinterland disastrato o su un parco meraviglioso. Quindi un fatto naturale, una disponibilità di un ecosistema può avere un valore di mercato. Il problema è che il valore di molti servizi delle cosiddette aree umide, dei fiumi o degli ecosistemi in generale non è facilmente valutabile in termini economici. È per questo motivo che si continua a trasformare e consumare un capitale ambientale, cioè queste proprietà naturali degli ecosistemi, per generare servizi direttamente fruibili dall’uomo e connessi all’urbanizzazione: le varie infrastrutture, i sistemi di trasporto, i centri commerciali». 



Finché non saremo in grado – sottolinea il professor Rinaldo – di valutare in modo sensato, quantitativo, in termini di mercato i beni e i servizi ecosistemici, saremo sempre in difficoltà rispetto a un qualunque piano di sfruttamento delle ricchezze della Terra a favore delle ricchezze dell’uomo; «il fatto è che nessuna economia può sopravvivere, nel lungo termine, senza capitale ambientale. Ma questo ci espone a un rischio altissimo; è come guidare a fari spenti nella notte, non sappiamo dove stiamo andando».

È difficile quantificare il valore di questi beni e servizi; e ci si può chiedere se è davvero possibile. Rinaldo ne è convinto: «Sì, ci sono gli strumenti scientifici, economici e tecnologici per fare delle stime valide; solo che bisogna metterli insieme, bisogna raffinare i modelli e prima ancora si deve incrementare la nostra capacità di definire con precisione queste grandezze. L’acqua è sicuramente un importante fattore di sviluppo e per questo dico che è una potente lente di ingrandimento di questi problemi». 

Consideriamo il tema delle reti idriche e delle conseguenze legate alla loro diffusione e alla non corretta gestione. «C’è un’attenzione insufficiente su questi temi. Colpisce il fatto che processi importanti per lo sviluppo delle risorse idriche, ad esempio le reti di irrigazione nell’Africa sub sahariana, portino all’aumento di malattie, inneschino quelle che si chiamano invasioni biologiche. Purtroppo, se da un lato i vantaggi delle reti di irrigazione sono ben visibili – nella produzione agroalimentare, nei vari servizi – non si vede tuttavia il loro costo sociale, non siamo in grado di valutare bene questo costo. La diffusione di molte malattie debilitanti, indotta da queste invasioni biologiche, rinforza con un effetto a spirale la povertà. Ma come si fa a valutare economicamente un fenomeno simile? Non si possono mettere a confronto bene materiali e bene immateriali». 

La situazione è ben di versa da quella che possiamo avere in una pianura padana o in altre parti dell’Europa; in Africa le condizioni climatiche incidono diversamente e se l’andamento del riscaldamento globale porterà a spostare la desertificazione a paralleli sempre più alti, caso potrà succedere? «I Paesi ricchi hanno modo di realizzare sistemi di trasporto dell’acqua con pipeline, con sistemi di sanitazione e così via, ma gli altri? Noi che abbiamo distrutto le nostre foreste nei secoli passati, non possiamo pretendere che la deforestazione non venga fatta da chi inizia adesso ad affacciarsi allo sviluppo».

Rinaldo non pretende di avere ricette che risolvono tutti questi problemi. «Dico però che scienza e tecnologie tempestivamente partecipate sono la base per una politica sensata specie sui temi ambientali. Questi non possono essere lasciati in mano, come accade in Italia, solo a chi ne fa unicamente una questione ideologica o ritiene che scienza e tecnologia siano sottoprodotti culturali, di poco valore conoscitivo. Quello che possiamo fare noi ricercatori è indicare le possibili relazioni causa-effetto. Con tutte le cautele tipiche di un discorso scientifico: non posso dire che senz’altro succederà così, non posso dare previsioni di assoluta certezza delle conseguenze indesiderate di una data realizzazione; però posso avere un’idea di quali siano gli scenari associati a certi interventi sul territorio, a certe infrastrutture e opere orientate a migliorare la qualità della vita». 

Come si vede, le tematiche etiche sottese a tutti questi problematiche non sono facilmente eludibili e inducono tecnologi ed economisti a fare una rinnovata seria riflessione su cosa si deve intere per “sviluppo”. «Gli indicatori economi, da soli, sono largamente imperfetti e inadeguati per capire quanto una società si sta sviluppando. Non è certo condivisibile la tesi dell’economista premio Nobel Simon Kusnetz, che la ricchezza porta progresso e porta uguaglianza. Si è visto e si vede bene come ciò non accada, specie nel sud del mondo». 

Si pone allora l’interrogativo su quale possa essere una strategia per ridurre le disuguaglianze e andare verso una giusta distribuzione delle risorse: «Abbiamo due visioni: quella che vede unicamente il mercato e la visione ecologista; sembrerebbero contrapposte e invece bisogna che si confrontino, che dialoghino. Non può essere il mercato da solo a dettare le linee dello sviluppo; come pure non può esserlo la visione ambientalista estrema, che vede l’uomo come responsabile di tutti i guai del pianeta».  

Di fronte agli scenari globali – come quelli preoccupanti richiamati al convegno della Feem che segnalano come oltre un miliardo di persone non abbia ancora accesso all’acqua potabile – per uno che dedica la vita allo studio dei sistemi idrici si pone più di un interrogativo. «Come ho detto, non ho la soluzione. Ma c’è una ricetta che va bene sempre ed è di investire in cultura; il vero investimento, soprattutto nel mondo in via di sviluppo, è quello che difende la crescita culturale. Per quanto riguarda noi ricercatori e tecnici, ritengo che ciò che può dare valore al nostro lavoro è la qualità delle domande che ci poniamo, prima e più delle risposte che riusciamo a fornire. Allora, si può pensare alla progettazione di opere di difesa, di gestione dell’acqua guardando all’idea di uguaglianza sociale, avendo in mente la domanda su come favorire sempre più uguaglianza, chiedendosi “per chi” è questo progetto: per i pochi ricchi o per i tanti poveri? Ciò può fare la differenza e può innescare delle spirali positive».   

(Michele Orioli)