La figura del grande scienziato balza in primo piano sulla scena pubblica in questo periodo. Al cinema riscuotono ampi consensi i film Imitation Game, dedicato ad Alan Turing, matematico alle origini della computer science, e La teoria del tutto, sulla vita del cosmologo Stephen Hawking. Oggi il supplemento Sette del Corriere della Sera ha in copertina Benedict Cumberbatch, l’attore che ha impersonato Turing, col titolo “L’uomo nuovo? È uno scienziato”. E ieri a Roma si è inaugurata presso Auditorium Parco della Musica l’edizione 2015 del Festival delle Scienze, che ha come tema “l’ignoto” e nella scheda di presentazione mette in evidenza una citazione dello stesso Hawking: “il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, ma l’illusione di sapere”.



Si è già detto molto del film su Turing e per entrambi vogliamo lasciare le critiche più strettamente cinematografiche agli esperti. Anche se non ci si può esimere, nel caso de La teoria del tutto, da una menzione speciale per la bravura del protagonista, Eddie Redmayne, e per la sua interpretazione magistrale in un ruolo indubbiamente difficile e impegnativo.



Nonostante il titolo, non sono i contenuti scientifici quelli che possono dare risalto a questo film; che si limita a far intuire il fascino dei temi trattati, anche col supporto delle sempre suggestive immagini astronomiche (a parte il refuso di un improbabile cielo sopra Cambridge, pieno di stelle uniformemente distribuite). E prova solo ad accennare alla singolare esperienza che è quella del genio: uno che riesce a guardare in modo nuovo alle cose che tutti hanno sempre avuto sotto gli occhi e che non esita a modificare la sua stessa teoria se si rivela inadeguata a dar ragione dei fenomeni naturali. La genialità di Hawking, più che nella capacità di riempire di fitti calcoli i foglietti da consegnare all’ultimo momento a Dennis Sciama durante l’esame di dottorato, si esprime nell’audacia delle domande poste e che scandiscono il suo percorso all’inseguimento (non ancora concluso) di quella sola equazione che, riunificando campi diversi come la quantistica e la relatività, dovrebbe portare alla spiegazione di tutto. Dove va notato che il “tutto” al quale la fisica può accedere è già in partenza un tutto circoscritto – chissà quanti spettatori ne saranno consapevoli – limitato inevitabilmente ai fenomeni naturali che possono essere trattati con gli strumenti conoscitivi della scienza.



Qualcuno si è lamentato che il film offra pochi elementi per spiegare il big bang, i buchi neri e altri problemi cosmologici; ma non ci sembra di dover cercare questi aspetti in un film del genere: non bisogna cercare spiegazioni scientifiche, come in un documentario, e ci sono comunque grandi difficoltà da affrontare, dovute al linguaggio, alle precomprensioni di alcuni concetti, ai prerequisiti di conoscenza necessari per comprendere il senso di alcuni passaggi. A che cosa penserà la maggior parte del pubblico sentendo nominare le parola relatività e quantistica? O più semplicemente, come farà a cogliere la battuta sulle tartarughe se non ha in mente le antiche cosmologie induiste che vedevano l’universo poggiare stabilmente sul dorso di una tartaruga? Oppure come farà a condividere l’entusiasmo dell’amico di Stephen che, esaltando la sua audacia nel dimostrare che il tempo ha avuto un inizio e avrà una fine, pesta un pacchetto di patatine dicendo “bang … crunch”? Dovrebbe aver letto il libro di Hawking, dove, tra i vari modelli cosmologici si parla di quello in cui il cosmo nasce col Big Bang e termina con un colossale Big Crunch.

Qui si potrebbe pensare che il regista immagini il suo pubblico formato dai 10 milioni di lettori del libro Breve storia del tempo. Dal big bang ai buchi neri (1988); che tuttavia non è così divulgativo come sembra: tanto che nel 1992, dopo la produzione del film-documentario sul libro, Hawking ha sentito il bisogno di scrivere il saggio illustrato Come leggere dal big bang ai buchi neri, ammettendo che i milioni di lettori “forse non hanno capito tutto quello che hanno letto: se così fosse, sarebbero pronti per un corso universitario di fisica teorica”.

Dunque, il film non è fatto per spiegare le teorie cosmologiche; come non lo è per approfondire il dibattito filosofico sull’esistenza di Dio. Peccato però che al pubblico resteranno in mente i passaggi nei quali l’alternativa “o la fisica o Dio” sembra ovvia e naturale. Le poche battute non consentono di trattare un argomento così impegnativo, che non sopporta soluzioni sbrigative; soprattutto non consentono di cogliere l’utilizzo riduttivo di alcuni concetti (Dio, creazione …) e i salti di livello di certe argomentazioni, quando si passa dalle domande alle quali la fisica può dare risposte (descrivendo l’evoluzione dell’universo) a quelle relative al passaggio dal nulla all’esistenza di qualcosa; è un limite epistemologico peraltro presente anche nello stesso libro.

C’è comunque, in queste parti del film, una battuta che merita di essere salvata: quando, poco dopo averlo conosciuto, Jane – seguace della Chiesa di Inghilterra – chiede a Stephen perché non creda in Dio, lui risponde che “un fisico non può permettere che i suoi calcoli vengano confusi dalla fede in un creatore soprannaturale”; al che Jane prontamente e argutamente ribatte: “sembra più un argomento contro i fisici che contro Dio”.

Vogliamo in ogni caso riconoscere il merito, sia di questo che del film su Turing, di aver posto, anche in modo emotivamente forte, il tema della scienza come esperienza umana: la scienza non è l’insieme delle leggi e teorie ma è fatta da uomini ed è cosa da uomini, che vivono in un dato contesto, hanno una loro storia, una loro visione del mondo. Forse possiamo aggiungere che se il tema è posto, non si può dire che sia svolto fino in fondo. In ciò sceneggiatori e regista scontano la visione culturale dominante che fa fatica a concepire i due termini, scienza e vita, in unità: c’è alla base un dualismo, che rende difficile mostrare come la vita, come l’esperienza personale possa contribuire al cammino della scienza e viceversa.