Se è presente lui, diventa subito la star della giornata: è iCub, il robot umanoide sviluppato dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Così è stato ieri a Milano, al MiCO – Centro Milano Congressi che ha ospitato la seconda edizione dell’Internet of Everything Italian Forum, promosso da Cisco in collaborazione con Intel. Quando ha preso la parola il vice direttore scientifico dell’IIT Giorgio Metta, dietro di lui è spuntata sul palco una figura singolare che l’ha accompagnato nella conferenza: alto 104 cm, pesante 22 kg, con una bianca armatura che copre il telaio sottostante cablato lasciando scoperte le articolazioni con giunti meccanici e cavi che ne rivelano la natura artificiale, anche se le fattezze del volto richiamano quelle di un bambino di circa quattro anni. Lo hanno chiamato così perché cub significa “cucciolo” e il prefisso “i” sta per tutto ciò che è informatica, internet, intelligenza. In effetti iCub, o meglio il progetto del robot umanoide dell’IIT, ha già dieci anni ma sta ancora imparando a stare in piedi e a mantenere l’equilibrio anche quando deve interagire con le persone; in questa abilità è aiutato dai 4000 punti sensibili distribuiti sulla pelle artificiale che gli copre il corpo e che gli permette di misurare in ogni istante i contatti e le forze che riceve dall’esterno, rispondendo con movimenti equilibrati.
È molto istruttivo, anche per il dibattito che si è sviluppato in questi giorni attorno al ruolo dell’IIT, capire da dove vengono realizzazioni come quella di iCub. Metta ha descritto a grandi linee la fisionomia dell’Istituto: sono circa 1400 ricercatori, l’età media è 34 anni, c’è un ampio programma di dottorato con circa 300 dottorandi; c’è un ricambio costante: la vita media trascorsa all’IIT è abbastanza bassa, la popolazione cambia abbastanza in fretta: ci sono ricercatori che arrivano dall’estero (30%) e anche italiani ritornati dall’estero, in controtendenza con la cosiddetta fuga dei cervelli; «quando un giovane ricercatore viene da noi e vede i nostri laboratori facilmente se ne innamora e desidera potervi tornare a lavorare».
Il piano scientifico è interdisciplinare, «il che vuol dire che copriamo una gamma di discipline relativamente vasta ma focalizzate a ottenere risultati in alcune aree applicative». La robotica è una delle principali aree applicative dell’IIT (le altre sono gli smart materials e le neuroscienze, con ramificazioni nella scoperta di nuovi farmaci); tutte però sono rappresentate da ricercatori che hanno i background culturali e scientifici più diversi: ci sono 17 differenti profili disciplinari: dall’ingegnere, al fisico teorico, allo psicologo, anche al filosofo. «Così ogni problema viene affrontato nella sua interezza. Noi ad esempio, per sviluppare i nostri lavori di robotica parliamo spesso con i neuroscienziati: loro ci dicono quello che hanno capito di come funziona il cervello e noi cerchiamo di tradurre in algoritmi questi meccanismi di funzionamento per ottenere macchine sempre più intelligenti, più autonome, più sicure».
La stessa cosa vale sul versante degli smart materials: «i robot attuali, mi spiace dirlo in presenza di iCub, non sono così robusti e dobbiamo ancora prestare loro grande assistenza perché potrebbe rompersi un cavo, un componente. Quindi ci aspettiamo molto dalla ricerca sui nuovi materiali che ci consente di realizzare un corpo per i robot che sia più resistente ma anche più morbido nei suoi contatti con gli esseri umani».
Anche per l’energia vale un discorso simile: una macchina come iCub, se alimentata con le batterie oggi disponibili può andare avanti per un’ora e mezza. «Però noi puntiamo a un robot che svolga funzioni di assistenza domestica e quindi devo disporre di una fonte energetica che gli consenta di operare per tutto il giorno».
Qui tocchiamo un punto molto generale e che rivela qualcosa di nuovo. Obiettivo della robotica – dice Metta – è sempre stato quello di realizzare macchine che possano essere di aiuto all’uomo. Però da qualche tempo c’è da registrare un cambiamento. «La robotica è cambiata: fino a pochi anni fa era di fatto sinonimo di automazione industriale; un ambito certamente importante ma in qualche modo confinato negli spazi ristretti della fabbrica o del laboratorio. Da qualche tempo non è più così, e il robot inizia ad occupare altri spazi, quelli dove c’è più interazione con l’essere umano.
Peraltro oggi anche nell’industria si parta di robot come co-worker, cioè come aiutante che opera mescolandosi e affiancandosi agli umani. Ne deriva immediatamente la conseguenze che l’azione del robot deve essere totalmente sicura, precisa e affidabile. «Però, oltre alla fabbrica, ora si pensa ai robot che interagiscano nella nostra vita quotidiana. qui ci sono problemi diversi: la componente dell’interattività con l’uomo è prevalente rispetto alla pura funzionalità del robot , perciò gli ingegneri che lo progettano devono sforzarsi di dargli un’interfaccia semplice, piacevole da usare, che possa ascoltare il parlato e rispondere localmente, che non provochi danni scontrandosi con le persone e non distrugga gli oggetti nell’ambiente domestico o di ufficio».
Nel prossimo futuro dobbiamo aspettiamo robot così, utilizzati per migliorare la qualità della vita assistendo gli anziani (qualcuno parla di robot-badante), svolgendo lavori domestici; e naturalmente potrà collegarsi con il cloud attraverso la rete wireless, prendendo a prestito molte funzionalità dagli smartphone e quindi entrando a pieno titolo nella galassia dell’Internet of Everything.
Il piccolo iCub, che ha dato prova della sua abilità nel riconoscimento di oggetti dal palco di Cisco, è un capostipite di questa generazione. La strada però è ancora lunga: adesso è iniziata una nuova fase nello sviluppo di questi robot: quella che porterà il loro costo, che attualmente è dell’ordine dei 250.000 euro, a ridursi drasticamente intorno ai 10.000, il costo di un’utilitaria, quindi accessibile a un pubblico più ampio.
Il cammino di iCub è affiancato da tanti altri programmi sviluppati con lo stesso approccio. «Abbiamo anche altri programmi di robotica. Ci sono ad esempio i robot plantoidi, che possono essere distribuiti su un territorio e lì attivare ogni tipo di sensori per fare monitoraggio ambientale e comunicare i risultati a una centrale. Con lo stesso principio si studiano, in collaborazione con l’ESA (Agenzia Spaziale Europea), robot che possano fare esplorazione su altri pianeti. Ma anche svolgere attività che contribuiscono a salvaguardare l’ambiente o intervenire in caso di disastri e calamità varie; poi ci sono i robot quadrupedi, che si possono muovere in ambienti ostili e difficili da raggiungere con mezzi dotati di ruote. E altro ancora».
Altri programmi riguardano le applicazioni mediche della robotica: nella riabilitazione, nella realizzazione di protesi, di esoscheletri r di apparecchiature a supporto della fisioterapia; ma anche nella chirurgia, «dove possiamo prendere alcuni risultati della robotica, in particolare alcuni software e trasformarli in supporti per il chirurgo, dove il chirurgo usa in remoto un bisturi laser pianificando l’intervento che risulterà molto preciso e sempre meno invasivo».