La COP21 si è conclusa con una serie di impegni che i Paesi firmatari si sono assunti e sui quali ora si dovranno concentrare le attenzioni di politici, economisti e scienziati. Per questi ultimi però resta l’impegno principale e continuativo di sottoporre a costante critica e revisione ogni affermazione, alla luce di nuovi elementi di indagine, di nuove metodologie, di nuove conoscenze. È in questa prospettiva che, mentre a Parigi si chiudeva il summit dell’UNFCCC, abbiamo incontrato Keith Shine, Regius Professor di Meteorologia e Scienze del Clima presso l’Università di Reading (UK), per parlare dei principali temi della COP21, cioè di riscaldamento globale, di mitigazione e adattamento, di energie alternative.



Professor Shine, l’accordo della COP21 fissa come limite la soglia di 2 gradi di innalzamento della temperatura media globale. Pensa che sia una soglia ragionevolmente possibile da ottenere?

Penso che la soglia sia un’esigenza prettamente politica. Non è che 1.9 gradi di aumento va bene e invece 2.1 è un problema; è abbastanza artificiale come valore in sé. È soprattutto un modo per concentrare l’attenzione della discussione politica. Ora l’esito della COP sta indirizzando gli sforzi più verso una soglia di 1.5 gradi e penso che sia più che altro perché i paesi più colpiti dai cambiamenti climatici vorrebbero vedere indicata questa soglia più bassa. Probabilmente non credono sia possibile raggiungere questo obbiettivo, ma vogliono far sapere che anche con 1.5 gradi si avranno conseguenze importanti.



A che punto pensa sia arrivata la comprensione dei cambiamenti climatici, dall’ambito scientifico alla gente comune? Questa conferenza ha attirato molta attenzione da parte dell’opinione pubblica e si continuano a sentire molte voci che mettono in dubbio l’esistenza di un contributo derivante da attività umane. Possiamo esserne certi?

Penso sia il caso di guardare a ciò che afferma l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e cioè che la maggior parte del riscaldamento globale osservato dalla metà dello scorso secolo è probabilmente dovuta ad attività umane. Non penso ci sia un meccanismo concorrente di tipo importante per questo periodo. Prima del 1950, invece, la questione è molto più complicata, ma bisogna anche dire che il cambiamento climatico era decisamente minore in quel periodo. Io penso che le conclusioni del report IPCC siano ancora piuttosto solide. 

Qual è la sua opinione sull’uso di energie rinnovabili come risposta realistica al problema dei cambiamenti climatici

Questo domanda va un po’ oltre le mie dirette competenze. Si sentono molte opinioni contrastanti sia riguardo i cambiamenti climatici che rispetto alle energie rinnovabili. Nel primo caso mi sento abbastanza qualificato da poter giudicare le diverse opinioni, ma non posso dire la stessa cosa rispetto all’energia “verde”. Inoltre, gran parte del problema si intreccia con dinamiche di mercato: se le rinnovabili fossero rese obbligatorie diventerebbero più economiche; ma, ripeto, permangono molti punti di vista in conflitto l’uno con l’altro.

Ritornando su argomenti più legati alla sua ricerca, quali pensa siano gli aspetti in cui dobbiamo progredire di più in modo da aumentare la nostra comprensione dei cambiamenti climatici?

Ci sono diversi aspetti da isolare e prendere in considerazione. Uno di questi è un problema che stiamo cercando di affrontare da molto tempo e cioè il fatto che non sappiamo ancora valutare l’effetto della risposta globale del sistema clima (climate sensitivity). In parole povere possiamo definirla come l’aumento di temperatura che otterremmo raddoppiando la concentrazione di anidride carbonica. È più di 30 anni che possiamo dire di sapere che questa risposta si porta dietro incertezze significative ma finora non siamo stati in grado di ridurre tale incertezza. Ciò che abbiamo saputo fare è stato comprenderne le cause. Gran parte di essa deriva dalla comprensione di come le nubi rispondono al cambiamento climatico; c’è stato un grande sviluppo della ricerca in questo ambito, in particolare dal punto di vista strumentale e delle misure da satellite delle proprietà delle nubi. Quindi c’è la speranza di ridurre questa incertezza, ma non dobbiamo dimenticarci che ci sta accompagnando da diversi anni senza che siamo riusciti a diminuirla. Evidentemente, se non sappiamo predire i cambiamenti climatici con sicurezza, questo è un problema.

 

Gli altri aspetti?

Un secondo aspetto riguarda il fatto che noi non percepiamo il cambiamento climatico a livello globale, ma piuttosto a scala regionale ed è molto importante accrescere la nostra comprensione dei cambiamenti a diverse scale, per poter dire se e quanto Reading, ad esempio, verrà colpita dal riscaldamento globale, piuttosto che altre città in qualsiasi parte del mondo. Questo è un aspetto veramente importante e ha bisogno di miglioramenti nei nostri modelli, nella loro risoluzione spaziale ma anche nella comprensione teorica dei processi meteorologici di base che interenvengono nel sistema climatico in una qualsiasi area. L’altra questione che vorrei isolare è a mio parere piuttosto complicata. Si tratta della comprensione dei feedback, cioè delle retroazioni, tra carbonio e sistema climatico. Ad esempio, se si stanno modificando le riserve naturali di carbonio negli oceani e nel permafrost e la cattura di carbonio da parte delle foreste tutto ciò significa che il riscaldamento in sé probabilmente conduce a una maggiore rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera da parte di queste riserve. C’è ancora molta incertezza nel definire gli effetti di tutti questi feedback. Potrebbe essere un effetto totale trascurabile o invece molto importante. Stiamo parlando di un aspetto che ha un’influenza fondamentale nelle dimensioni delle barre di errore nei grafici che illustrano le nostre previsioni della situazione nel 2100. A seconda dell’importanza di questi feedback ci sarà bisogno di tagliare le emissioni in maniera più o meno importante per evitare un certo livello di riscaldamento.

 

Cosa pensa si possa fare in termini di mitigazione e adattamento?

Anche qui, siamo un po’ fuori dalla mia area specifica. Di sicuro dovremo adattarci ai cambiamenti climatici e ci stiamo già impegnando a farlo, sta già accadendo. Alcune aree dovranno adattarsi più di altre: penso sia necessaria una combinazione di mitigazione e adattamento. Certamente, se vogliamo seriamente rimanere al di sotto della soglia di 1.5 gradi saranno necessari un certo tipo di soluzioni ingegneristiche, come la geo-ingegneria o vari metodi per sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera,. Più vogliamo restare lontani dai 2 gradi, se cerchiamo di farlo seriamente, più dovremo intervenire in altre maniere nel sistema.

 

In questo periodo assistiamo a un incremento della coscienza di un problema rispetto al clima e alla natura in generale. L’ultima enciclica di Papa Francesco ne parla diffusamente. Come possiamo affrontare il bisogno di preservare il pianeta creato per noi e sul quale abitiamo? A suo modo di vedere, come si possono conciliare le nostre pratiche quotidiane con la necessità di una cura per l’ambiente?

Penso che dovremmo farci guidare da un principio di precauzione per cui non se non sappiamo gli effetti delle nostre azioni sull’atmosfera e l’ambiente allora è meglio non farle. Spesso è possibile che sia già troppo tardi per rimediare ancora prima che ci rendiamo conto di cosa le nostre azioni stanno provocando. Penso che dovremo usare il meglio della nostra scienza per capire quali sono i più probabili impatti delle nostre attività, non soltanto riguardo ai cambiamenti climatici.

 

Questo potrebbe essere un problema per la geo-ingegneria?

Sì, certo. Io penso che ci sono tanti problemi di natura etica e legale legati alla geo-ingegneria. Cioè, se non capiamo ancora quali sono gli effetti di un raddoppio della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera allora non sappiamo neanche quali saranno gli effetti della geo-ingegneria. Sono d’accordo, la geo-ingegneria non mi rassicura per niente al momento. Forse in 50-100 anni comprenderemo il sistema clima abbastanza da poterci pensare ma al momento mi sembra un rischio enorme. 

 

(Ambrogio Volonté)