I sondaggi sul rapporto tra gli scienziati e la religione non sono rari: ne vengono condotti a più livelli, in vari contesti e con diverse metodologie. Le domande principali sono pero più o meno le stesse: religione e scienza possono coesistere? è vero che gli scienziati sono in massima parte atei? permangono elementi e temi sui quali il conflitto è inevitabile e insanabile? Ultimamente sembra che la tendenza prevalente vada nella direzione – inattesa in verità solo da chi ha una visione superficiale o preconcetta di entrambi i campi – di non vedere contrasti insormontabili e di testimoniare un’ampia possibilità di far convivere un’esperienza religiosa con l’attività di ricerca scientifica.



È quanto emerge da una vasta indagine condotta da un gruppo della Rice University di Houston, guidato da Elaine Howard Ecklund, direttrice del programma Religion and Public Life e titolare della cattedra Herbert S. Autrey in Scienze Sociali; l’indagine, sviluppata col supporto della Fondazione Templeton e dell’Istituto Faraday, ha coinvolto 9.422 scienziati (neli settori della fisica e della biologia) intervistati in otto nazioni: Francia, Hong Kong, India, Italia, Taiwan, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti; gli stessi autori hanno inoltre realizzato direttamente interviste in profondità incontrando 609 scienziati: indubbiamente  il più grande sondaggio a livello mondiale condotto sul tema del rapporto tra fede e scienza.



I primi risultati, appena pubblicati, indicano che il luogo comune dell’ateismo prevalente degli scienziati vada sfatato. Più della metà degli scienziati in India, Italia, Taiwan e Turchia si identificano come religiosi: in Italia sfiorano il 60%; nel Regno Unito solo il 32% degli scienziati ha indicato l’interfaccia scienza-fede come uno dei luoghi di conflitto; negli Stati Uniti, questa quota scende al 29%.

Per un primo commento di questi dati abbiamo sentito don Giuseppe Tanzella-Nitti, già astrofisico e ora docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università della Santa Croce; Tanzella è curatore, con Alberto Strumia, del poderoso Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (DISF) e direttore del centro di ricerca di Scienza e fede (disf.org); ha da poco pubblicato i primi due di quattro volumi di un corposo trattato di “Teologia fondamentale in contesto scientifico”.



Questi risultati la sorprendono?

La survey condotta dalla Elaine Howard Ecklund è un lavoro importante e fa seguito a un volume che l’autrice pubblicò nel 2010 con la Oxford University Press, intitolato “Cosa gli scienziati pensano davvero della religione”. Il campione ora esaminato è assai più ampio, ma conferma in buona parte, sebbene con alcune ulteriori specificazioni, quanto già mostrato in quel volume, ovvero la maggior parte degli scienziati crede in Dio. Il risultato potrebbe sembrare a qualcuno sorprendente, ma per chi segue questo genere di letteratura e di ricerche, lo è assai di meno. La maggior parte dei media ci offre l’immagine di uno scienziato ateo o comunque poco incline a vedere la natura come opera di un Dio creatore. Tuttavia, questa immagine corrisponde solo in parte alla realtà e non è rappresentativa degli uomini di scienza nel loro insieme.

La dichiarazione di non ateismo potrebbe anche semplicemente indicare una posizione di tolleranza e in fondo di indifferenza alle grandi domande tipiche del senso religioso….

Occorrerebbe vedere in dettaglio i risultati della survey per rispondere a questa domanda. Potrebbero infatti esserci delle domande incrociate che ci consentano di capire le convinzioni esistenziali degli intervistati e quali opzioni essi avevano a disposizione nelle loro risposte. La mia esperienza è che le domande tipiche del senso religioso — da dove veniamo, dove andiamo, quale sia il senso dell’universo, il suo destino ultimo, quale ruolo noi umani occupiamo in esso — sopravvivano oggi meglio nell’ambiente scientifico che in quello filosofico. La filosofia contemporanea ha ritenuto il tema di Dio e del senso della vita troppo “forti” per essere affrontati, attestandosi così su posizioni di pensiero debole. La scienza, al contrario, non ha avuto timore di affrontare queste domande, come si può facilmente vedere nelle opere divulgative di molti scienziati. Il fatto che il metodo scientifico non possa fornire una risposta esauriente a tali domande non evita che esse sorgano e continuino ad attrarre chi studia la natura.

 

L’ostilità del mondo scientifico verso le religioni, e il cattolicesimo in particolare, sembra ridotta il minimo; ma è cresciuto anche il dialogo?

Sì, siamo lontani dal materialismo ottocentesco che gettava discredito sulla religione e negava le cattedre a uomini come Pierre Duhem o Francesco Faà di Bruno, per il solo fatto di essere cattolici… A dir la verità, ancora oggi l’essere di fede cattolica ha ostacolato l’investitura di qualche Nobel. Ma al di là di queste situazioni, l’interesse dell’ambiente scientifico verso la riflessione filosofica e teologica è cresciuto, specie se filosofia e teologia sanno proporsi in modo rigoroso e fondato.

 

La survey ha privilegiato come campione i fisici e i biologi: come considera questa scelta? Si possono notare differenze nel rapporto scienza fede tra gli scienziati di differenti discipline?

Era logico che la parte sostanziale degli intervistati fossero di ambito fisico e biologico. Il tema dell’origine dell’universo, delle leggi di natura, i temi legati all’origine della vita e alla sua evoluzione, continuano ad essere quelli di maggior impatto interdisciplinare, dove religione e scienza hanno più cose da dirsi. Oggi si aggiungono forse le neuroscienze, ma si tratta di vedere a che livello i neuroscienziati siano stati inclusi nel campione della Howard Ecklund. Ritengo che la fede in un Dio creatore sia oggi maggiormente condivisa dai fisici, dagli astronomi e dai matematici che non dai biologi. Almeno è questa l’esperienza che ho potuto fare in occasione di convegni, tavole rotonde e dibattiti. Ho in proposito una spiegazione, a livello personale. Le scienze fisiche e matematiche hanno ormai un’espistemologia matura, che le protegge da derive ideologiche perché ha fatto loro toccare in modo formalmente rigoroso i fondamenti, e anche i limiti, del conoscere. Le scienze biologiche, invece, sono più giovani, e non hanno ancora incontrato quei problemi di incompletezza formale e ontologica che le scienze fisiche e matematiche ben conoscono. Ciò può condurre la biologia a voler offrire una propria “visione del mondo” esaustiva e talvolta autoreferenziale, ritenendo superfluo ogni discorso sui fondamenti dell’essere, e dunque sull’origine delle cose. In realtà, quando si tocca da vicino il problema dei fondamenti, e la biologia sta cominciando a farlo quando si sforza di entrare con profondità nell’origine del DNA, il problema del Logos, della razionalità e del senso delle cose torna a riemergere, e con esso la domanda su Dio. Il percorso di un ricercatore come Francis Collins basterebbe a dimostrarlo.

Il particolare punto di osservazione che è il portale DISF cosa le permette di constatare circa i rapporti tra gli scienziati e l’esperienza religiosa oggi?

Soprattutto molto interesse, da parte di chi si occupa di ricerca scientifica, ad approfondire temi storici, epistemologici, interdisciplinari. La scienza genera cultura ma nasce anche entro un humus culturale che deve favorirla. La nostra rubrica sugli “scienziati credenti” è la più cliccata e molti giovani ci scrivono chiedendoci approfondimenti bibliografici su temi scientifici che toccano questioni teologiche. È il segno che le grandi domande si richiamano a vicenda e che quando c’è amore alla verità si vuole andare fino al fondo delle cose.

 

(Mario Gargantini)