Esce in questi giorni, edito da Franco Angeli, il saggio “Il mestiere della scienza. La ricerca scientifica tra artigianato e Big Science”, di Carlo Bottani, ordinario di Fisica Sperimentale della Materia al Politecnico di Milano: una stimolante riflessione “dall’interno” sull’esperienza della ricerca, della tecnologia e della comunicazione scientifica. Il volume è stato presentato al Politecnico da Paolo Milani, Marco Bersanelli e Mario Calderini. Ne anticipiamo qui, per gentile concessione dell’editore, un ampio estratto dell’introduzione. 



Viviamo in un’epoca destabilizzante di grande crisi economica, politica, sociale, etica. La scienza e la tecnologia sembrano costituire un’eccezione. La prima, per quanto riguarda la fisica e la chimica, è – per dirla con Thomas Kuhn – in un periodo normale ma molto fruttuoso, sostanzialmente stabile dopo il periodo straordinario dei primi trent’anni dello scorso secolo. Fa eccezione l’astrofisica sperimentale, ricca di novità affascinanti ed enigmi come la materia oscura e l’energia oscura. La biologia molecolare, per fare solo un altro esempio, è invece in un periodo straordinario, di grande innovazione.



I progressi tecnologici, pensiamo soprattutto al settore ICT (Information and Communication Technology), ma anche a quello dei nuovi materiali e delle nanotecnologie, sono sotto gli occhi di tutti e stanno ulteriormente contribuendo a trasformare la società in modo radicale e non facilmente prevedibile. Cadute le grandi ideologie olistiche, la tentazione di motivare l’apparente assenza di crisi della scienza con il possesso di solide razionali certezze, basate su verità assolute acquisite una volta per tutte, è forte. Forte, ma non per tutti consolatorio. La società contiene, tra gli altri, due partiti estremi: per il primo la scienza e la tecnologia sono onnipotenti, per il secondo sono (soprattutto la tecnologia) il male assoluto.



Per evitare questi eccessi, che portano a fraintendere profondamente il significato e la reale collocazione della ricerca scientifica nel contesto generale della cultura e della società, occorre: a) migliorare la qualità della formazione e dell’informazione scientifica, evitando superficialità e uno scorretto sensazionalismo; b) narrare in modo storicamente attendibile, e con assoluta trasparenza, la storia e, soprattutto, la prassi della scienza. Una storia e una prassi di donne e uomini che non appartengono ad alcuna razza speciale, anche se quasi sempre mossi da una vocazione originaria per certi versi simile a quella religiosa.

Soggettivamente il ricercatore si sente chiamato ed è appassionato. Entra così in una dimensione di contemplazione e di venerazione per l’oggetto della sua ricerca. Per chi scrive, come per molti altri, ciò ha implicato un atteggiamento di dedizione e di senso del dovere di tipo oblativo che comprende anche l’impulso a comunicare, a condividere.

Questo saggio, con un taglio personale basato sull’esperienza diretta dell’autore, vuole così contribuire a diminuire la distanza tra gli addetti ai lavori e il grande pubblico, affrontando seriamente il limite che riguarda, in particolare, la forma della narrazione possibile di tutta la fisica contemporanea, sempre più basata su modelli microscopici che segnano un grado formidabile di astrazione matematica e di distanza dagli iniziali modelli atomistici che erano almeno parzialmente intuitivi.

Scopo del libro è anche smascherare le responsabilità che surrettiziamente gli “scienziati” si prendono o accettano non avendone titolo, e quelle che dovrebbero prendersi se definissero correttamente il loro ruolo. Tema quest’ultimo di grande attualità: scienza – potere – decisione democratica consapevole. L’autore ha una deplorevole propensione alla provocazione intellettuale che lo ha spinto a scrivere in modo spesso pungente. Quanto ha scritto forse non piacerà ad alcuni addetti ai lavori e ad alcuni giornalisti scientifici. Crede che lo abbia spinto anche un dovere morale nei confronti della società che (non è l’aspetto più trascurabile) ha finanziato le sue ricerche in una università pubblica, nonché lo stato del tempo corrente con tutte le sue incertezze, inquietudini e contraddizioni. Si è poi chiesto, visto che ritiene un dovere comunicare in cosa consiste il mestiere della scienza e le sue implicazioni tecnologiche al pubblico più vasto: è possibile farlo in modo a un tempo efficace e onesto? Il divulgatore scientifico può essere o un giornalista o un addetto ai lavori. Della prima categoria si dirà più avanti. L’addetto ai lavori (in italiano il termine “scienziato” è apparso enfatico) che voglia divulgare si trova tra Scilla (una narrazione tecnica precisa ma opaca e, di fatto, incomprensibile) e Cariddi (una narrazione brillante, apparentemente chiara, di fatto ingannevole e sensazionalistica).

(…) Un’ultima precisazione è necessaria. L’autore ha vissuto la professione della scienza come fisico: ciò ha ovviamente influito sul suo punto di vista. Inoltre si è occupato di quella che Philip Anderson ha recentemente definito, credo per la prima volta, la fisica minore. Anderson, premio Nobel, ritiene se stesso un’esponente di questo tipo di fisica. La precisazione è importante perché, come il lettore avrà modo di vedere, la concezione artigianale della scienza, che è il perno attorno a cui ruota gran parte di questo libro, è particolarmente pertinente quando ci si riferisce alla “fisica minore”.

Secondo Anderson la fisica maggiore è la fisica delle particelle elementari assieme alla cosmologia. La fisica della materia condensata (fisica dei solidi e dei liquidi) e la fotonica con l’elettronica quantistica costituiscono la fisica minore. Perché maggiore in un caso e minore nell’altro? Ci sono più ragioni. Limitiamoci alle principali. Anzitutto la fisica delle particelle elementari, inestricabilmente legata alla cosmologia da quando esiste la teoria del Big Bang, si occupa dei costituenti elementari della materia e la cosmologia dell’origine dell’universo. Temi maggiori che fanno tremare le vene e i polsi e che, un tempo, erano dominio esclusivo della filosofia.

Il sogno dei teorici di questi settori è la grande unificazione. La teoria del tutto che riesca finalmente a inglobare la gravitazione nella teoria quantistica relativistica già esistente che unifica le altre forze note: elettro-deboli e forti. I due più importanti tentativi in questa linea di pensiero sono la gravità quantistica e la teoria delle stringhe. In entrambi i casi, oltre a notevoli difficoltà concettuali ancora da superare, non esiste di queste teorie alcuna evidenza sperimentale. Sono però argomenti che hanno un fascino indicibile per chiunque: il fascino del mistero. Non a caso quasi tutti i libri di fisica di carattere divulgativo usciti negli ultimi anni riguardano questi ambiti. Inoltre la fisica delle particelle elementari, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, ha visto la realizzazione di apparecchiature sperimentali sempre più grandi e costose, sino ad arrivare alla macchina LHC (Large Hadron Collider) del Cern, il gigantesco acceleratore recentemente assurto all’onore delle cronache per la rivelazione sperimentale del bosone di Higgs.

La fisica minore non scende al di sotto della scala spaziale del singolo atomo, si basa attualmente su una teoria ragionevolmente stabile (la meccanica quantistica, così come era già sostanzialmente nota nel 1930, con l’aggiunta dell’elettrodinamica quantistica di Feynman del 1950). È poi infinitamente meno costosa. Se però guardiamo l’impatto sulla società (l’impatto positivo), quello della fisica minore è stato infinitamente maggiore, anche considerando le ricadute tecnologiche conseguenti alla realizzazione dei grandi acceleratori. Basti anticipare qui che il transistor (da cui derivano i circuiti integrati, i microprocessori, gli attuali computer e, quindi, in ultima analisi, la rivoluzione informatica e internet) e il laser sono stati tipici prodotti della fisica minore.

Ogni classificazione è schematica e limitata. I fisici minori usano i fasci di particelle di grandi acceleratori per studiare i materiali. La teoria della fisica minore è sempre più simile alla teoria quantistica dei campi che è la base di tutte le teorie della fisica maggiore. In qualche caso idee teoriche della fisica minore hanno suggerito sviluppi essenziali nella teoria della sorella maggiore (è il caso della superconduttività e dell’idea base del bosone poi detto di Higgs). I due campi non sono quindi completamente indipendenti. Tuttavia, secondo Anderson, il mestiere di fisico maggiore, può dare alla testa. Egli lo afferma in modo molto polemico: «I fisici, e gli scienziati in genere, amano fare due cose; (a) smontare, analizzare riducendo a semplici componenti; (b) mistificare, dire: non è semplicemente questo, è quello; quello che vedi non è quello che c’è. Lo scienziato si è arrogato il ruolo dello sciamano o del mullah. Tutto proviene da una Causa Prima – la Prima Equazione – e solo lui può investigare la natura con le sue costosissime apparecchiature e comprenderla con le sue astruse teorie. L’arroganza nutrita da questa attitudine mentale è tale che, solo sperimentandola, si può credere che possa esistere».

Conosco fisici delle particelle e astrofisici che si occupano di cosmologia che non ricadono affatto sotto questo severo giudizio. Tuttavia il problema esiste e questo è anche un saggio contro l’arroganza nella scienza, anche nella fisica minore.