All’interno dei vari ambiti di ricerca legati allo studio dei cambiamenti climatici, particolare interesse è puntato verso le analisi che cercano di valutare quali saranno le conseguenze sui singoli fenomeni meteorologici. Infatti l’ aumento della temperatura media del pianeta, che i modelli climatici sono piuttosto concordi nel predire, potrebbe portare ad anomalie molto differenti, o addirittura di segno opposto nelle diverse aree del globo. Sappiamo che il moto dell’atmosfera sopra le nostre teste, sebbene possa essere descritto in prima approssimazione da poche leggi fisiche fondamentali, dipende da molti fattori correlati tra loro e questo rende particolarmente delicata l’evoluzione delle varie strutture meteorologiche in esso contenute.



Una fetta consistente di queste ricerche si concentra sui cicloni extratropicali. Prima di descriverli, ricordiamo che è importante non confonderli con i loro omonimi tropicali, chiamati anche uragani o tifoni a seconda della collocazione geografica (rispettivamente America e Sud-Est Asiatico), che vengono generati sugli oceani caldi principalmente da processi di evaporazione.



I cicloni extratropicali invece si muovono a latitudini intermedie e sia il Nord-America che l’Europa centro-occidentale sono spesso influenzate dal loro passaggio. La loro origine risiede nella presenza di instabilità baroclina, che nasce dal fatto che esiste una differenza di temperatura tra l’aria che si muove nelle regioni equatoriali e quella più fresca che le scorre accanto a latitudini superiori. L’esistenza di questo gradiente di temperatura rende i due flussi instabili e innesca dei moti, orizzontali e verticali, trasportando calore in modo da ristabilizzare i flussi. Queste situazioni sono quindi intrinsecamente legate alla circolazione atmosferica.



Sebbene la maggior parte degli episodi di cattivo tempo sulle nostre regioni dipenda dal passaggio di queste strutture, che usualmente non sono particolarmente violente, ogni anno si registrano diversi episodi di cicloni piuttosto intensi. A titolo di esempio, si può elencare il ciclone Juno che poche settimane fa ha soltanto sfiorato New York, già pronta ad un’intensa nevicata, portando maggiori effetti più a Nord-Est, con circa 60-75 cm di neve nella zona di Boston. In Europa i fenomeni più dannosi legati a intensi cicloni extratropicali sono i venti molto forti e le piogge abbondanti, come nel caso dei diversi cicloni transitati sulle Isole Britanniche nell’inverno 2013-2014 che hanno causato estesi allagamenti (circa 6000 abitazioni colpite) e danni derivanti da raffiche al suolo fino a 150 km/h. 

Quindi, che cambiamenti ci aspettiamo dai cicloni extratropicali nel futuro? Proviamo a dare una risposta considerando uno degli studi più recenti nel settore, pubblicato su Geophysical Research Letters . A livello teorico gli effetti da considerare sembrano essere principalmente due. Prima di tutto l’aumento dell’evaporazione dovuto al riscaldamento globale conduce a una maggior disponibilità di calore latente, intensificando i processi instabili in atto. D’altra parte, l’incremento di umidità aumenta anche l’efficienza del trasporto di calore verso i poli, essenzialmente il meccanismo con cui l’atmosfera risponde all’instabilità baroclina. La conseguenza è che il sistema necessita di trasferire meno energia al ciclone per trasportare calore e ritornare così stabile. Sommando i due effetti ci si può aspettare quindi che nel futuro i cicloni extratropicali siano associati a maggior precipitazioni, senza un cambiamento apprezzabile della loro intensità, e cioè dei massimi valori di vento al suolo.

Anche le proiezioni dei modelli climatici sono di questo avviso ma, date le incertezze con cui i modelli attuali rappresentano i processi riguardanti l’umidità, si è deciso di verificare quest’ipotesi sfruttando la variabilità delle temperature in area atlantica negli scorsi decenni. In particolare, considerando i periodi più caldi e confrontandoli con quelli più freddi si può ricavare una parziale analogia del previsto riscaldamento futuro. 

Le conclusioni dello studio concordano con le ipotesi iniziali per cui non ci si aspetta un’intensificazione dei cicloni extratropicali nel futuro a livello di vorticità e velocità del vento ma è atteso un aumento delle precipitazioni ad esso associate. Un’implicazione interessante di questo risultato è che i modelli climatici, pur da migliorare, sono già in grado di descrivere gli effetti del global warming sull’evoluzione dei cicloni extratropicali con ragionevole precisione.

È interessante paragonare i risultati appena enunciati con quelli che derivano da un approccio totalmente diverso, molto più teorico e generale, come nello studio di Lalibertè et al,  appena pubblicato su Science. I moti dell’atmosfera infatti possono essere considerati come una particolare macchina termica, riprendendo il famoso studio di Carnot, cioè un sistema che genera lavoro (e quindi movimento) trasportando calore. L’aria calda presente nelle regioni equatoriali, sollevandosi e muovendosi verso latitudini maggiori, redistribuisce l’energia in eccesso ricevuta dal Sole trasportando calore verso i poli. Da questo ciclo hanno origini anche i moti atmosferici e quindi anche le instabilità che producono i cicloni extratropicali, come detto in precedenza. 

Ora, dato che i processi relativi all’umidità portano a un aumento dell’entropia del sistema atmosferico, si può dedurre che da essi derivi una minore efficienza della macchina termica “atmosfera”. Al riscaldamento globale sarebbero quindi legate due conseguenze contrastanti. L’aumento sia dell’energia in gioco che del vapore acqueo disponibile, con la relativa diminuzione dell’efficienza nel generare lavoro a parità di variazione di entropia.

Nell’articolo citato si trova quindi un’analisi che, partendo da dati osservati e simulazioni climatiche per il futuro, cerca di quantificare l’effetto globale sulla circolazione atmosferica usando i principi base della termodinamica e l’analogia tra l’atmosfera e una macchina termica. Le conclusioni dello studio sottolineano la minore efficienza del sistema atmosferico, che però non è uniforme. Infatti, quelle masse d’aria che riescono a raggiungere il limite superiore della troposfera vedono il loro moto rafforzato, mentre si assiste a un generale indebolimento delle altre circolazioni. In parole povere, quest’analisi suggerisce che nel futuro i fenomeni meteorologici più potenti verranno rafforzati a spese delle strutture più deboli: meno tempeste, ma più intense.

Le conclusioni dei due articoli possono sembrare a tratti contrastanti tra loro anche se va sottolineata l’importanza, in entrambi i casi, dei processi che coinvolgono l’umidità all’interno dei vari fenomeni atmosferici. È però importante considerare che lo studio di Lalibertè si rivolge ai moti atmosferici in generale, mentre l’altro articolo considera soltanto i cicloni extratropicali, generati dal rilascio di instabilità baroclina. Alle nostre latitudini ci aspettiamo quindi cicloni extratropicali più piovosi ma non maggiormente violenti nel futuro, in uno scenario in cui la media dei fenomeni meteorologici sul pianeta evolve invece verso processi meno frequenti ma più intensi.

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