A volte capita di farsi delle domande imbarazzanti. Per esempio, in questi giorni mi sono chiesto quale sia stato l’oggetto della mia ricerca scientifica, sviluppata durante quattro decenni, approfondita dalla progressiva maturazione della curiosità, dal bisogno di conoscere e di amare la bellezza di ciò che ogni giorno mi è capitato di incontrare. L’avere percorso un itinerario, scientifico e umanistico insieme, l’avere seguito con scrupolosità un metodo di lavoro, una disciplina rigorosa nell’indagine di elementi, di oggetti, di natura, di paesaggi, di configurazioni ambientali, che cosa ha prodotto nel mio appartenere alla realtà? L’occasione si è manifestata attraverso due episodi che, a distanza di pochi mesi, hanno ‘ricentrato’ la tensione vitale del mio essere.



Un po’ prima di Natale 2014 ho letto un piccolo volume intitolato Sette brevi lezioni di fisica (Rovelli, 2014), che mi ha suscitato un interesse e una curiosità straordinaria, anche per il modo semplice e sintetico di esporre questioni fondamentali nel campo della fisica. Quando ero studente liceale a Milano, l’approccio alla teoria della relatività generale di Albert Einstein mi aveva vagamente affascinato, ma, nella realtà, non ero mai riuscito a comprenderla a fondo. Mi sembrava che, vista sotto il profilo della fisica, si presentasse come un concetto di natura indeterministico ontologico, connesso con la differente velocità del tempo nel cosmo. Al Liceo studiavo la nozione di gravità, esperienza comune a tutti gli esseri razionali, e i movimenti della Terra e degli altri Pianeti del sistema solare, ma, ne sono certo nel ricordo, il mio professore di fisica non ha mai accennato all’apparente incongruenza o convergenza tra gravità e rotazione dei corpi celesti: erano solo due leggi fisiche da studiare e basta. La fisica di Isaac Newton, contenuta nella famosa Philosophiae Naturalis Principia Mathematica del 1687, non sembrava essere degna di noi adolescenti diciottenni.



Un ulteriore passaggio che ho potuto afferrare dalla lettura del testo di Rovelli è consistito nella stupenda idea di Einstein, che concepisce, non inventa, ma scopre, un campo di forze dove gravità e rotazione degli astri coesistono, non in una scatola vuota come aveva pensato Newton, essendo esse stesse coincidenti con lo spazio: il campo gravitazionale. Che stupore addentrarsi in questioni così complesse che un genio, nella storia del tempo, è riuscito a svelare.

Intuire e dimostrare poi, che esiste una dilatazione del tempo che si manifesta nello svolgersi di un evento, da qualunque osservatore sia rilevato e a qualunque velocità si muova, mi è sembrato un fatto talmente straordinario da lasciarmi non solo stupito, ma affascinato dall’intelligenza di geni come Einstein, Poincaré e Lorentz, che hanno concorso a renderla sperimentabile.



In che cosa consiste sul piano culturale questa osservazione scientifica? Su oltre sette miliardi e mezzo di esseri umani del nostro Pianeta, solo una percentuale minima ha una percezione approssimativa di questo fenomeno, vive ugualmente, bene o male, e non è in grado di rilevare, rispetto a questo tipo di conoscenza, riconducibile alla teoria della relatività ristretta, variazioni significative al proprio stile di vita o al proprio modo di pensare. È come dire che tutto il lavoro degli scienziati, relativo alla constatazione della dilatazione del tempo nel campo gravitazionale, sia un’inutile perdita di tempo e di denaro pubblico?

Qualche bizzarro osservatore afferma che la testa invecchia più rapidamente dei piedi per effetto del metro e mezzo e più che separa le due estremità: forse qualcuno se ne sta accorgendo, nonostante i vari lifting, destinati a cancellare o a ridurre le tracce dell’invecchiamento stesso. Quanto significhi ‘più rapidamente’ riguarda, tuttavia, frazioni infinitesimali della nostra misura del tempo. ‘Nel paradosso dei gemelli, quello che compie l`immaginario viaggio a velocità prossima a quella della luce torna sulla terra ‘giovane’ mentre i suoi coetanei erano già morti, ma nel suo sistema di riferimento erano i terrestri a viaggiare alla stessa velocità, come mai non invecchiano loro allora? Come distinguo chi si muove’ da chi ‘sta fermo? (Luigi Scarci). Questa induzione di Einstein a calcolare la consistenza fisica della materia attraverso un sistema di riferimento capovolge la concezione di spazio-tempo assoluto di Newton, suggerendo che l’assoluto è l’origine del riferimento, mentre la materia si trasforma secondo caratteri funzionali a chi la osserva.

Il secondo elemento che mi ha suggestionato si è originato da una frase accennatami da un amico, di professione ricercatore di fisica in Università, all’interno di una piacevole conversazione: ‘C’è chi sostiene che lo scienziato, colui che dedica la propria vita ad indagare la realtà che lo attrae e lo incuriosisce, di fatto, studia il pensiero di Dio’. Questa frase mi ha sorpreso al punto tale che mi sono ritrovato a rileggere il vero significato di tutto ciò che avevo indagato nella mia lunga carriera accademica. Sono andato, così, alla ricerca di tracce nel pensiero di grandi scienziati, per verificare la concretezza dell’espressione citata dal mio amico fisico.

Ho trovato un’importante lettera di Einstein del 31 maggio 1954, indirizzata al filosofo Erik Gutking, dove, ad un certo punto, si legge: La convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere razionale, che si rivela nell’incomprensibile Universo, fonda la mia idea su Dio’… e ancora: ‘Chiunque sia veramente impegnato nel lavoro scientifico si convince che le leggi della natura manifestano l’esistenza di uno Spirito immensamente superiore a quello dell’uomo e di fronte al quale, con le nostre modeste facoltà, dobbiamo essere umili’. E così torno alla mia domanda iniziale: che cosa ha prodotto il mio fare lezioni in aula, il mio specializzarmi nel mondo della ricerca, il mio tentativo di costruire una piccola squadra di ricercatori? Rammento che, durante le mie lezioni, la parte più difficile da far comprendere agli studenti consisteva in un concetto base della Geografia, e più esattamente che la Geografia non studia la Terra, come da un secolo a questa parte si cerca di spiegare, ma le relazioni che esistono tra i fenomeni che su di essa accadono.

In un certo senso, la realtà è data solo da un’interazione dinamica tra elementi: conoscere la materia è fondamentale sul piano della fisica e della fenomenologia, ma la conoscenza avviene solo attraverso la comprensione dei legami e dei principi che li esprimono. Allora, perché ho sempre sostenuto con forza questa posizione culturale, peraltro ampiamente condivisa dal mondo degli studiosi di questa disciplina? So che esiste un’attinenza profonda tra il mio essere cristiano, la materia che insegno e le ricerche che svolgo. Solo che ho sempre vissuto la realtà secondo momenti differenti, temporalmente e spazialmente, tanto da non riuscire ad accorgermi che, mentre espongo la mia curiosità sul reale, perdo di vista l’autorevolezza dell’origine della realtà stessa.

‘Dov’eri tu quando gettavo le fondamenta della terra? Rispondi, se hai abbastanza conoscenza’. (Giobbe , cap.38).