Venerdì 27 marzo si è tenuto a Parigi nella prestigiosa sede della International Academy of Astronautics la sesta edizione del Symposium on search for life signatures, il congresso annuale sulla ricerca della vita nel cosmo promosso dal SETI Permanent Committee della stessa IAA, preceduto, come tradizione, dalla riunione del Committee, a cui chi scrive ha partecipato insieme a una delegazione italiana mai così numerosa. Non è stato però questo l’unico fatto degno di nota: i due eventi hanno infatti segnato una tappa importante, forse addirittura una vera e propria rivoluzione (questo solo il tempo potrà dirlo) nella storia ormai più che cinquantennale della ricerca della vita nel cosmo.
Il dato più imponente, anche se purtroppo si è trattato di una sorpresa fin troppo annunciata, è stato senz’altro che, per la prima volta in assoluto in un incontro di questo tipo, a Parigi non era presente nessun rappresentante dello storico SETI Institute californiano, fondato e a lungo diretto da Frank Drake. Era stato proprio Drake nel 1960 a iniziare in solitudine quello che oggi è noto come programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence); dando poi molti altri memorabili contributi: come l’invio nel 1974 del famoso “messaggio di Arecibo” (primo messaggio inviato intenzionalmente dalla Terra verso le stelle per segnalare la nostra esistenza ad altre ipotetiche civiltà); l’ideazione, insieme a Carl Sagan, delle placche dei Pioneer e dei dischi d’oro dei Voyager (che molti dei lettori del Sussidiario avranno avuto modo di ammirare durante l’ultimo Meeting di Rimini nella mostra Explorers proposta dall’Associazione Euresis); nonché della celeberrima “equazione di Drake”, che tenta di stimare il numero di altre civiltà esistenti nell’universo e viene immancabilmente citata ogni volta che si parla dell’argomento.
Purtroppo le crescenti difficoltà economiche, dovute in parte alla crisi, ma anche – va riconosciuto – a scelte strategiche sbagliate, hanno reso sempre più difficile attrarre giovani ricercatori capaci di rimpiazzare validamente lo stesso Drake, Jill Tarter, Kent Cullers, Seth Shostak e gli altri personaggi storici che un po’ alla volta sono andati in pensione, fino a mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’Istituto. Ora, se da un lato questa situazione non può che addolorare chiunque conosca almeno un po’ la straordinaria passione e il non meno straordinario coraggio dimostrato per tanti anni da questi autentici pionieri (soprattutto se poi, come nel mio caso, alla stima professionale si accompagna l’amicizia, nata da una ormai quindicinale frequentazione), va anche detto che per altro verso essa rappresenta un’opportunità senza precedenti.
È infatti innegabile che, nonostante il sempre crescente peso che sta assumendo l’Università di Berkeley, che è ormai da tempo la vera punta di diamante del SETI mondiale, nel complesso il baricentro della ricerca si sta spostando verso l’Europa. Soprattutto dopo l’ingresso nel SETI Committee (e la sua immediata elezione alla vicepresidenza) di Mike Garrett, capo di tutti i radiotelescopi olandesi, che d’ora in avanti parteciperanno alla ricerca, e l’annuncio dell’imminente avvio di un programma SETI anche sul nuovissimo radiotelescopio INAF a San Basilio in Sardegna (tra l’altro il più grande d’Europa), che si aggiunge a quello portato avanti per anni da Stelio Montebugnoli presso l’altra stazione radioastronomica INAF di Medicina (BO).
E proprio per il nostro paese, in particolare, si stanno aprendo orizzonti inimmaginabili soltanto tre anni fa. L’Italia infatti in passato non ha mai avuto molto peso politico, benché sia da sempre il secondo paese dopo gli Usa in questo campo di ricerca così particolare, che richiede un’enorme dose di creatività e fantasia, ma anche di intelligenza e professionalità; tutte doti che i nostri ricercatori possiedono in quantità industriale.
Ebbene, proprio l’Italia ha di fatto assunto la leadership della un po’ disorientata comunità del SETI in questo momento di delicatissima transizione generazionale (e forse epocale), anche grazie a Claudio Maccone, il primo non americano eletto (nell’ottobre 2012, durante il 63° International Congress of Astronautics di Napoli) alla presidenza del SETI Committee, che sta guidando non solo con la competenza scientifica che nessuno gli ha mai contestato, ma anche con un’abilità e un’intelligenza politica che invece forse non tutti si aspettavano, ottenendo tra l’altro la piena accettazione del SETI (una ricerca verso cui la comunità scientifica in passato ha spesso manifestato diffidenza) da parte sia della IAA che dell’altro grande organismo scientifico internazionale del ramo, il COSPAR (Committee on Space Research).
Ma anche dal punto di vista strettamente scientifico l’Italia è sempre più protagonista, su almeno due fronti. Il primo è rappresentato dalla crescente diffusione della KLT (Karhunen-Loève Transform), adattata al SETI proprio dai ricercatori italiani, che accrescerà moltissimo le nostre possibilità di successo, giacché, a differenza della classica FFT (Fast Fourier Transform), permetterà entro qualche anno, quando avremo a disposizione strumenti più potenti, di identificare anche i segnali radio non intenzionalmente diretti a noi, come le trasmissioni televisive, che, pur essendo destinate alla comunicazione all’interno del pianeta, inevitabilmente si diffondono anche nello spazio.
Il secondo fronte è il SETI ottico, che cerca possibili segnali laser e che fino a qualche anno fa era monopolio esclusivo di Berkeley. Ora invece viene svolto anche presso il piccolo ma agguerrito osservatorio FOAM13 di Tradate (VA), il cui team, guidato dal presidente Roberto Crippa, era presente al completo a Parigi. Di fronte ai più grandi esperti del mondo, il FOAM13 ha suscitato l’ammirazione di tutti per le capacità dimostrate da quello che in teoria è solo un gruppo di appassionati: basterà notare che il ricevitore è stato “fatto in casa” da Alberto Villa, che fa l’ingegnere elettronico nell’industria, e da Giuseppe Savio che, pur essendo laureato in fisica, di mestiere pilota i canadair dei vigili del fuoco).
Tra l’altro, proprio dal SETI ottico è venuta la novità più importante del congresso, grazie all’astrofisico giapponese Shin-ya Narusawa, che, in analogia a quanto fino ad oggi era stato fatto solo per le frequenze radio, ha per la prima volta studiato le frequenze ottiche su cui è più probabile che possa avvenire un tentativo di comunicazione interstellare di questo tipo, identificandone cinque (per gli esperti e gli appassionati, a 1.06414 µm e 532.1, 393.8, 656.5 e 589.1 nm, in ordine di probabilità decrescente).
Ora la grande sfida sarà riuscire a salvare anche la dimensione interdisciplinare del SETI, che è sempre stata la sua caratteristica più originale e affascinante, giacché si tratta dell’unico caso al mondo di una ricerca di questo livello che ha visto lavorare fianco a fianco per decenni scienziati, filosofi, artisti e perfino teologi in un rapporto di fattiva collaborazione, reciproca stima e spesso anche amicizia. Fino ad oggi a farsene carico erano sempre stati gli uomini e le donne del SETI Institute, ragion per cui negli ultimi anni essa è entrata in crisi insieme a loro: a Parigi è risultato evidente che i soli a poterla ricuperare, per sensibilità, cultura e competenze, siamo ancora una volta noi italiani.
Non sarà facile raccogliere un’eredità così impegnativa, ma ci proveremo. E durante le chiacchierate a tavola (il luogo istituzionalmente deputato alla nascita delle grandi idee) ha già cominciato a delinearsi un certo progetto… Non voglio ancora sbilanciarmi, ma se andrà in porto ne sentirete sicuramente parlare, e non solo su queste pagine.
Tradizionalmente il mio “termometro” in questi meeting è rappresentato dal cattivo caffè americano, debitamente troppo caldo o troppo freddo, che immancabilmente li accompagna: se nonostante tutto ti sembra buono, vuol dire che le cose stanno andando bene. Questa volta mi è parso fantastico.