Siamo nella settimana di Hubble, che culminerà venerdì 24 aprile con la celebrazione del 25esimo anniversario del lancio del Telescopio Spaziale (HST). Da un quarto di secolo HST è in orbita, a circa 550 km dalla Terra e ogni 96 minuti compie un giro completo attorno a noi esplorando incessantemente lo spazio vicino e lontano e regalandoci una galleria smisurata di immagini nelle quali scienza e bellezza formano un binomio straordinario. C’è però chi ad Hubble lavora da quarant’anni: come Duccio Macchetto, l’astrofisico italiano che nel 1975 è stato nominato responsabile scientifico europeo per il progetto ”Hubble Space Telescope” e nel 1983 si è trasferito allo Space Telescope Sciente Institute di Baltimora (Usa) dove ha ricoperto diversi incarichi fino a diventare Direttore Associato e responsabile del programma scientifico del telescopio. L’abbiamo raggiunto mentre si appresta a partecipare alle più importanti iniziative celebrative in programma negli Stati Uniti.



Lei ha partecipato all’impresa di Hubble fin dall’inizio: che tipo di telescopio volevate progettare e per quali ricerche?

Nella storia della scienza i grandi passi avanti sono sempre stati fatti da scoperte fondamentali portate a termine da strumenti rivoluzionari. Quattrocento anni dopo la scoperta del telescopio fatta da Galileo il telescopio spaziale Hubble continua sulla strada delle grandi scoperte e dalla sua messa in orbita il 24 aprile del 1990 ha trasformato le nostre conoscenze dell’universo. Altri telescopi spaziali avevano già approfittato di alcuni dei vantaggi di osservare al di fuori dall’atmosfera terrestre, in particolare con osservazioni nelle lunghezze d’onda (ultravioletto, raggi-X e gamma) che sono assorbite dalla nostra atmosfera. Il progetto HST nasce da idee e sogni di scienziati degli anni ‘40, in particolare Lyman Spitzer dell’università di Princeton. Negli anni ‘70 divenne una proposta concreta fatte prima alla Nasa e poi all’Esa (Agenzia Spaziale Europea). La mia partecipazione risale appunto ai primi approcci fatti dalla Nasa all’Esa nel 1975. Abbiamo portato avanti insieme gli studi dettagliati sul telescopio e gli strumenti di bordo e ho avuto la fortuna di essere stato il ”Project Scientist” dell’Esa da quella data fino al 2007. Gli obbiettivi fondamentali del progetto Hubble erano quelli di rispondere ai maggiori quesiti dell’astrofisica e della cosmologia. Il primo era di risolvere in maniera definitiva il problema della velocità di espansione dell’universo. Le misure fatte con i telescopi terrestri davano risultati molto diversi, a secondo delle tecniche usate o dei ricercatori che le portavano a termine. Questa velocità di espansione è nota come la costante di Hubble, dal nome dell’astronomo che negli anni ‘20 fu il primo ad osservare che le galassie si allontano da noi con una velocità che appunto aumenta con la distanza. Il valore di questa costante è fondamentale per definire l’età dell’universo ed è uno dei parametri che ne determinano anche la forma strutturale. Appunto per questo motivo lo scopo più importante del progetto era quello di portare a termine le misure, con grande precisione, di questa velocità. Altri progetti erano quelli di poter studiare l’evoluzione delle galassie durante le diverse fasi evolutive dell’universo e cercare di spiegare i processi che portano alla formazione di galassie di tipo molto diverso (ellittiche, spirali ecc.). Spitzer prevedeva che con HST avremmo potuto osservare le galassie a ”redshift=1” cioè a distanze di circa un miliardo di anni luce da noi. Questo è stato largamente superato dalla ”performance” degli strumenti a bordo del telescopio, che ci hanno portato quasi al limite dell’universo visibile con osservazioni di galassie a 13 miliardi di anni luce! Una grande incognita degli anni 70-80 era se esistevano dei buchi neri supermassivi, cioè con masse di milioni o addirittura di miliardi quella del nostro sole. I quasar, quelle sorgenti superluminose che si potevano osservare con i radiotelescopi, erano i migliori candidati, ma le osservazioni ottiche da Terra non potevano penetrare al loro interno per rispondere a questa domanda. Altri problemi importanti riguardavano la densità e composizione del gas intergalattico, cioè di quella materia che si trova tra una galassia e l’atra e anche dove apparentemente non ci sono galassie. Questo gas è una componente importante dell’universo, la sua composizione determina anche che tipo di cosmologia sia quella che ha dato origine all’universo. La teoria del Big Bang prevede la formazione di alcuni elementi (idrogeno, elio, litio, berillio, boro ecc.) nei primissimi minuti dopo la formazione dell’universo. Le relative proporzioni dipendono appunto dai dettagli del Big Band e sono determinanti per l’evoluzione dell’universo dopo quei primi minuti e per la futura formazione delle grandi strutture e delle galassie.



Per raggiungere questi obiettivi, che caratteristiche doveva avere Hubble?

Le idee per lo sfruttamento del telescopio non si limitavano a rispondere alle incognite cui ho accennato, ma coprivano tutto l’arco dell’astronomia: dallo studio dei pianeti più vicini a noi, alla ricerca di pianeti attorno a stelle vicine, allo studio della struttura della nostra galassie e i processi di formazione delle stelle nella nostra galassia e nelle altre galassie in funzione della loro età e stato evolutivo. Per portare a termine tutti questi progetti ci voleva un telescopio veramente rivoluzionario che potesse sfruttare non solo le diverse lunghezze d’onda accessibili dallo spazio ma soprattutto il fatto che la mancanza di atmosfera assicura che la qualità delle immagini dipende solo dalla perfezione e dimensione dello specchio. Per sfruttare al massimo la possibilità di ottenere immagini di altissima precisione lo specchio del Hubble fu dimensionato a 2.5 m di diametro. Naturalmente il telescopio avrebbe avuto una serie di strumenti diversi, ciascuno adatto ai diversi tipi di osservazioni (immagini di alta definizione, misure spettroscopiche etc.) Ma l’idea più rivoluzionaria fu quella di pensare ad un telescopio al quale si potessero apportare modifiche e riparazioni, sfruttando la navetta spaziale della Nasa e garantendo così una lunga vita utile nello spazio. Le specifiche prevedevano una vita utile di 10 anni con la possibilità di estenderla fino a 15. Come sappiamo questa aspettativa è stata largamente superata, grazie allo sforzo di scienziati, tecnici e astronauti della Nasa e dell’Esa e oggi festeggiamo ”i primi” venticinque anni del telescopio Hubble.



 

Dopo il lancio, Hubble ha fornito subito grandi risultati ma ci sono stati anche momenti di grande difficoltà: come ha vissuto personalmente questi due aspetti ?

Il primo direttore dello Space Telescope Science Institute (STScI), Riccardo Giacconi (Nobel della Fisica 2002) diceva che la costruzione di Hubble era l’equivalente moderno della costruzione delle cattedrali del medioevo. Errori durante la costruzione portano a ritardi, ma anche dopo che la cattedrale è finita si trovano problemi che vanno risolti negli anni o secoli successivi. Le difficoltà con il Hubble furono subito evidenti. Durante la fase di messa a punto del telescopio in orbita capimmo che lo specchio principale soffriva del difetto della cosiddetta aberrazione sferica: la luce di una stella invece di essere concentrata in un solo punto luminoso diventa un centro brillante ma con attorno una specie di alone dove si disperde una parte importante della luce. Il grosso problema era che questo limitava di molto la possibilità di sfruttare il vantaggio di osservare dalla spazio, anche se il telescopio rimaneva comunque molto competitivo rispetto ai telescopi di Terra. Durante un periodi di alcuni mesi, con un gruppo di lavoro di scienziati, tecnici e astronauti abbiamo lavorato per pensare a tutte le soluzioni possibili e alla fine la soluzione scelta fu di costruire uno strumento che portava al suo interno delle ottiche di correzione per gli altri strumenti a bordo. Dopo tre anni gli astronauti portarono in orbita questo strumento e apportarono anche altre modifiche importanti; da quel momento il telescopio Hubble divenne il simbolo dell’astronomia mondiale.

 

Quindi era tutto a posto?

 Come disse la Senatrice Barbara Mikulski durante la conferenza stampa dove si mostravano le prime immagini fatte con il telescopio riparato, ”the troubles with Hubble are over” (i problemi con Hubble sono finiti). In retrospettiva questo non fu del tutto vero. In un progetto complesso come quello di HST i problemi non mancano: da strumenti con problemi di elettronica, a batterie o giroscopi che con il tempo vanno perdendo la loro efficienza, a pannelli solari che vanno sostituiti ecc. La meraviglia è che l’idea di fare innanzitutto un telescopio con circuiti e strumenti ridondanti assicura sempre che il telescopio può funzionare anche con delle limitazioni in alcuna delle sue parti. Il secondo grande vantaggio fu appunto la possibilità di sostituire strumenti e parti non funzionanti con le missioni di riparazione che avvennero con una frequenza di 3-5 anni. Nella mia veste di Esa Project Scientist e di responsabile degli strumenti scientifici dello STScI ho vissuto tutte quelle fasi con trepidazione mista alla speranza. Per partecipare a un progetto come questo bisogna essere fondamentalmente ottimisti! Naturalmente questo non basta per garantirne il successo; si deve lavorare e programmare per limitare i danni, progettare il miglior modo per risolvere i vari problemi che si presentano e fare piani a lungo termine per migliorare sempre di più l’efficienza del telescopio e della scienza che si può ottenere.

Come spiega la lunga vita di Hubble e le sue prestazioni, che hanno superato ogni aspettativa?

La lunga vita del telecopio dipende appunto dalla concezione di partenza che prevedeva un telescopio riparabile in orbita. La possibilità di mantenere le prestazioni del telescopio sempre correnti con l’inserimento di strumenti che possono incorporare tecnologie che non esistevano 10 o 20 anni fa permette che sia sempre più competitivo e attuale. Se dal punto di vista dell’ingegneria questo è possibile, non basta a garantirne il successo. Il costo di ogni missione di riparazione supera le centinaia di milioni di dollari e bisogna convincere sia la comunità scientifica, sia la Nasa e l’Esa che la scienza che il telescopio continua a fornire è sempre competitiva. Nel nostro caso le prestazioni scientifiche non sono superate da nessun altro telescopio né da terra né nello spazio. Ci sono molti modi per misurare l’impatto scientifico di un telescopio. Per esempio: il numero di pubblicazioni scientifiche fatte ogni anno sfruttando i dati del Hubble supera quelle di qualsiasi altro telescopio o addirittura quelle dell’insieme di parecchi dei telescopi terrestri di più grandi dimensioni. Fino ad oggi le pubblicazioni di Hubble superano le 800 per anno dopo il 2000 e più di 12000 in tutto. Nel campo di tutte le scienze, le citazioni dei risultati di Hubble rappresentano il 10% del totale. Ma dal punto di vista qualitativo, l’impatto del Hubble si fa sentire su tutti i problemi dell’astrofisica e cosmologia moderna: dalle osservazioni dei pianeti del nostro sistema solare, all’altro estremo con le osservazioni delle prime galassie formate nell’universo. Questa varietà dei campi di ricerca assicura che tutta la comunità astronomica ne trae un beneficio diretto.

 

Tra i tanti risultati scientifici quali sono stati a suo avviso i più significativi? Ce n’è qualcuno che lei personalmente ricorda in modo particolare?

Se dovessi scegliere tre o quattro risultati comincerei senz’altro da quello che ha cambiato il paradigma sull’espansione dell’universo. Da osservazioni, fatte prima in concomitanza con alcuni telescopi da terra e poi su galassie ancora più lontane quasi esclusivamente dal Hubble, si è potuto determinare che l’universo non si espande con una velocità costante come si pensava e facevano pensare molti dei modelli cosmologici. Seguendo invece uno dei risultati della teoria della relatività generale di Einstein, che data di 100 anni, si osserva che nell’universo esiste una forza di espansione, la cui natura è peraltro ignota, che fa si che l’universo si accelera sempre di più. Einstein che aveva trovato questo risultato risolvendo alcune delle sue equazioni disse che era stato uno dei suoi grandi errori! Naturalmente con i mezzi osservativi di quell’epoca non era assolutamente possibile misurare questa accelerazione e abbiamo dovuto aspettare l’avvento di Hubble per poterla osservare. Questa enorme sorpresa valse il Nobel della Fisica del 2011 a tre ricercatori. Inoltre apre il campo a numerose ricerche sulla natura di questa forza ignota, sia nel campo dell’astronomia sia in quello della fisica fondamentale. In effetti si richiede che esista una nuova forza a larga scala di azione, la cui natura ci è del tutto ignota, che esisteva sin dall’inizio dell’universo e che ha preso il sopravento sulla forza di gravità. In termini di energia questa forza rappresenta circa il 75% di tutta l’energia dell’universo. La misura della velocità di espansione ha comunque avuto un risultato importante, conosciamo il valore di questa velocità e di conseguenza anche l’età dell’universo che è di 13,8 miliardi di anni. Il secondo risultato a sorpresa è che non solo esistono alcuni buchi neri supermassivi al centro di particolari galassie come i quasar, ma che praticamente tutte le galassie hanno dei buchi neri massivi al loro centro. Inoltre maggior e la massa della galassia, maggiore è la massa del buco nero al suo centro. In qualche modo il processo che porta alla formazione della galassia porta anche alla formazione del buco nero. Questo ha avuto delle conseguenze importanti per i modelli di formazione ed evoluzione delle galassie. I nuovi modelli sviluppati tenendo in mente questi risultati mostrano che le galassie attraversano dei processi di fusione. A misura che l’universo si espande le sue dimensioni aumentano e la sua densità naturalmente diminuisce. Quando l’universo era più piccolo le galassie avevano maggiori possibilità di attrarsi mutuamente e fusionarsi in una sola galassia con la massa finale delle due galassie, così anche i buchi neri al centro di ciascuna galassia si fondono e formano un buco nero di massa più grande. Anche la nostra galassia ha un buco nero al suo centro, di massa di poco superiore al milione di masse quella del Sole.

Gli altri due?

 Il terzo risultato è la misura della quantità di materia oscura che esiste nell’universo. Sfruttando il metodo della lente gravitazionale, cioè la deformazione dello spazio dovuto alla massa (anche questo il risultato delle teorie di Einstein), si può determinare la quantità di materia totale necessaria per produrre quella deformazione. Le osservazioni di Hubble permettono di vedere dei gruppi di galassie in primo piano e immagini di galassie più lontane deformate dalla massa del gruppo antistante. Quando si misura in dettaglio sia la massa delle galassie nettamente visibili sia la massa totale si osserva che la massa visibile rappresenta solo il 10% della massa totale! In altre parole, la materia oscura rappresenta il 90% del totale della materia dell’universo. Non sappiamo quale sia la natura di questa materia, esistono innumerevoli teorie ma per ora non c’è nessuna che sia credibile o verificabile. Conosciamo veramente solo la natura della materia normale, della quale siamo fatti noi esseri umani, la nostra terra e le stelle e galassie. Tra la materia oscura e l’energia oscura la nostra ignoranza dell’universo, grazie a Hubble, è del 96%! Il quarto risultato è lo studio di pianeti che ruotano attorno ad altre stelle e quello delle loro atmosfere. Osservazioni fatte con telescopi da terra e altri telescopi spaziali, dedicati quasi esclusivamente alla scoperta di nuovi pianeti extra-solari, ha portato il loro numero a più di 2000 e il numero aumenta in continuazione. Di questi però pochissimi possono essere visti direttamente, la loro presenza è dedotta dalle variazioni dell’orbita della loro stella madre dovute all’attrazione gravitazionale della loro pur piccola massa. Le atmosfere dei pianeti che si possono osservare direttamente sono state studiate dal Hubble e questo ha permesso sia determinare che in vari casi c’è l’innegabile presenza di vapore d’acqua, essenziale per lo sviluppo della vita, ma anche di incominciare la ricerca delle bio-segnature, cioè di quei prodotti che dovrebbero essere il risultato di processi di vita nel pianeta.

 

Hubble ha avuto un grande ruolo anche nella comunicazione della scienza verso il grande pubblico, che ha potuto ammirare immagini spettacolari del cosmo: cosa si sente di suggerire, soprattutto agli educatori, perché la reazione di fronte a tali immagini non si limiti a una reazione emotiva passeggera?

Dai primissimi tempi lo Space Telescope Science Institute si è impegnato per comunicare al pubblico non specializzato i risultati di Hubble. Questo sforzo che ha avuto l’appoggio finanziario della Nasa ha fatto sì che il nome Hubble sia ormai noto in tutto il mondo. La prima reazione del pubblico è naturalmente quella di apprezzare la meraviglia e la bellezza dell’universo attraverso le immagini. Ma questo lavoro non si limita alla divulgazione di immagini che possono essere attraenti dal punto di vista estetico. Lo sforzo è quello di usare queste immagini per spiegare in modo semplice e diretto la scienza che si trova dietro l’immagine, sia essa l’esplosione di una supernova, la collisione di due galassie o il motivo della presenza delle migliaia di galassie che si osservano nel Hubble Deep Field, l’immagine delle galassie nell’universo più profonda mai ottenuta fino ad oggi. Insieme a gruppi di insegnanti specializzati delle scuole superiori che si riuniscono ogni anno allo STScI, sfruttando le osservazioni scientifiche più adatte, si lavora per sviluppare mezzi educativi che servono ad illustrare diversi problemi scientifici e che sono poi incorporati nei curriculum di insegnamento delle scuole elementari, medie e superiori. Solo negli Usa questi mezzi educativi sono stati usati in più di 200mila scuole e aiutano maestri e professori ad essere aggiornati con la scienza moderna.

Dopo Hubble sarà la volta del JWST: come raccoglierà l’eredità di Hubble e quali sono le sfide conoscitive che potrà affrontare?

Nei prossimi 10-20 anni l’astrofisica farà senz’altro grandissimi ulteriori progressi grazie al più potente telescopio spaziale che si sia costruito: il James Webb Space Telescope (JWST), un telescopio di 6,5 metri di diametro realizzato in collaborazione tra la Nasa e l’Esa, che sarà lanciato da un razzo Ariane 5 nel 2018. Questo progetto si pone al centro di quella che chiamiamo la ricerca delle ”origini”: cioè l’origine dell’universo, l’origine delle galassie e delle stelle e anche l’origine della vita stessa. Con JWST si dovrebbe se non risolvere del tutto almeno limitare le possibili teorie sulla forma dell’energia oscura, cioè la forza responsabile dell’accelerazione dell’universo. Vogliamo poi cercare la soluzione del mistero, cui prima ho accennato, della materia oscura; nei prossimi 20 anni dovremo poter risolvere anche questo problema, che ha straordinaria importanza sia per definire la futura evoluzione dell’universo, sia per chiarire quali tra le diverse possibili versioni del Big Bang, che diede origine all’universo, è quella corretta. Un altro campo nel quale prevedo una enorme crescita di interesse, sia a livello scientifico che per il grande pubblico, è l’astrobiologia, che unisce i biologi e gli astronomi nella grande ricerca delle origini della vita.