Sono saliti oltre i 5mila metri, sul tetto del mondo per studiare anche i fenomeni sismici della zona che circonda la catena himalayana, ma non avrebbero mai voluto assistere così da vicino a una tragedia che sta assumendo proporzioni catastrofiche: sono gli scienziati e i tecnici, italiani e non, che operano presso la Everest Seismic Station – Pyramid, la stazione sismica dell’Everest, operativa dal 2014 e che ora è uno dei più vicini testimoni del devastante terremoto che ha sconvolto il Nepal. La stazione è stata installata a 5.050 metri di quota presso il Laboratorio Osservatorio Piramide EvK2Cnr, nel Parco Nazionale di Sagarmatha (un nome che non è altro che il termine sanscrito per “madre dell’universo” ed è l’attuale nome in nepalese dell’Everest) in una zona confinante con la regione sede dell’epicentro del sisma del 25 aprile. 



Il laboratorio è stato realizzato, tra gli altri obiettivi, per monitorare e studiare i fenomeni geologici, geofisici e glaciologici della catena del Karakorum, anche al fine di sviluppare Sistemi informativi territoriali (Gis) e Sistemi di supporto decisionale (Dss), per prevenire e fronteggiare situazioni di crisi ed eventuali catastrofi naturali.



La zona infatti è nota per la sua attività sismica ed è considerata una delle regioni a più alto rischio del mondo: è una zona caratterizzata da un’alta velocità di scorrimento e teatro di uno dei più forti terremoti in quell’area nel secolo scorso. Nel 1934, con epicentro non molto lontano dalla punto dove si trova la stazione (e a soli 15 km dall’Everest) si era infatti verificato un terremoto di magnitudo 8,1 che causò oltre 10mila morti.

L’attività sismica della regione è causata dalla convergenza tra la placca indiana, a sud, e la placca euro-asiatica a nord, che ha determinato la formazione della catena dell’Himalaya. Il movimento relativo tra le due placche è di 4-5 centimetri per anno (di cui si stima che 2 cm/anno vengano accumulati lungo il margine meridionale della catena montuosa). Questo significa che ogni 100 anni si accumula una deformazione pari a due metri di spostamento relativo tra le due placche. Nell’area colpita dal terremoto di questi giorni non ci sono stati forti terremoti per diversi secoli; per questo motivo la zona intorno alla capitale Kathmandu era considerata un “gap sismico”, cioè – in base a una teoria sviluppata negli anni 70-80 – un buon candidato per un prossimo sisma.



Le carte predisposte dal Usgs statunitense e riprese dall’Ingv (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), mostrano il potenziale sismico di tutta la fascia di contatto tra la placca indiana e quella eurasiatica indicando, per ciascun settore, la quantità di spostamento che si può verificare con un terremoto: nel caso della zona colpita da questo terremoto si stimavano movimenti sismici tra 4 e 10 metri. Il movimento geologico è lento ma la deformazione che si accumula anno dopo anno lungo le faglie che bordano la catena montuosa viene rilasciata a scatti, quando la resistenza delle faglie stesse viene superata. Ogni scatto è un terremoto. 

Il movimento di scorrimento della faglia che ha generato questo terremoto è avvenuto su un piano sub orizzontale, con leggera pendenza verso Nord, sollevando il blocco tibetano verso Sud: presumibilmente – dicono i ricercatori di EvK2Cnr – sulla grande linea tettonica chiamata Mht (Main Himalayan Thrust). 

Gli schemi geologici dell’Usgs mostrano come la placca indiana scivoli sotto quella eurasiatica creando l’innalzamento dell’Himalaya: c’è una porzione del contatto tra le placche che rimane ferma per secoli nel periodo inter-sismico e che si muove improvvisamente quando viene superata la resistenza della faglia: in quel momento avviene il terremoto che ristabilisce (momentaneamente) l’equilibrio geologico.

In effetti, l’Himalaya è il risultato della più grande collisione tra placche tettoniche, con la formazione dei monti più alti della Terra. Il sismometro installato nel Laboratorio della Piramide rilevando le onde sismiche, misura il movimento del suolo himalayano indicandone la velocità di spostamento. Tuttora l’Everest cresce di alcuni millimetri ogni anno e il costone roccioso su cui poggia si sposta di 4 cm: dati che evidenziano il movimento della placca tettonica indiana verso il continente asiatico. 

Ora tutta l’attenzione è concentrata sulla possibile prosecuzione del fenomeno sismico. Già nelle prime tre ore dall’inizio del sisma ci sono state 13 repliche (aftershock) con magnitudo stabile al valore 5, che significa che il movimento era pienamente in atto e stava scaricando energia. Nei primi due giorni dal sisma, osservano all’Ingv, gli aftershock sono proseguiti e si sono localizzati tutti a sud-est della scossa principale (verso Kathmandu) in un’area che si estende per circa 160 km.

I danni ingenti della capitale – dicono ancora all’Ingv – sono legati certamente alla notevole energia del terremoto (magnitudo 7.8, cioè dieci volte più forte del terremoto di Reggio Calabria e Messina del 1908) ma anche alla posizione della faglia (che arriva proprio sotto la città) e alla sua scarsa profondità, alla direttività della rottura (verso la capitale) e alle caratteristiche geologiche dell’area (Kathmandu è costruita su sedimenti di un antico lago, che determinano l’amplificazione dello scuotimento sismico).

Le pagine informative dell’Usgs segnalano che, purtroppo, il potenziale sismico dell’area è ancora elevato. Nelle prossime settimane, ci si dovrà aspettare tra i 3 e i 14 terremoti di magnitudo maggiore di 5; l’Usgs stima una probabilità del 54% di avere terremoti di magnitudo maggiore di 6 e del 7% che si verifichi un terremoto di magnitudo maggiore di 7 durante la prima settimana. In seguito, nei prossimi mesi e anni, l’Usgs si aspetta parecchie repliche di magnitudo maggiore di 5, con probabilità significative per gli eventi di magnitudo maggiore di 6. 

Se può consolare, la probabilità che si verifichi una replica più forte dell’evento di magnitudo 7.8 non è nulla, ma è comunque molto bassa (circa 1-2%).