Expo 2015 è iniziata e sono tante, dentro il sito di Rho e fuori salone, le occasioni per approfondire e sviluppare i tanti risvolti delle questioni messe a tema. Una prospettiva interessante, che può aiutare a considerare in modo non riduttivo il problema agroalimentare, è quella storica, quella che potranno incontrare coloro che si recheranno presso l’abbazia di Mirasole, a pochi km da Milano, per visitare la mostra sulle origini dell’agricoltura ”Il racconto di un’eredità millenaria”, realizzata da Associazione Euresis e allestita dal 2 maggio al 30 settembre in collaborazione con Meeting Mostre, Centro Culturale di Milano, Agri-Cultura, Ortisti Abbazia Mirasole e Syngenta. Abbiamo chiesto al professor Carlo Soave, curatore dell’esposizione, di accompagnare i lettori de ilsussidiario.net in una visita guidata virtuale lungo il percorso espositivo.



Come inizia il percorso proponete in questa mostra?

Questa mostra racconta una storia, iniziata con alcuni uomini che, 10000 anni fa, hanno inventato l’agricoltura; e proseguita in un cammino dove altri uomini hanno saputo rispondere creativamente e operosamente alle necessità alimentari e, insieme a errori e sofferenze, hanno via via cambiato il mondo. Noi, uomini moderni, siamo nati in Africa tra 150.000 e 200.000 anni fa e per la maggior parte del tempo siamo stati nomadi cacciatori e raccoglitori; vivevamo in aree ricche di risorse alimentari, selvaggina, pesca, tuberi, frutti e semi di graminacee e leguminose selvatiche. C’erano però dei problemi. Le piante selvatiche, per riprodursi e sopravvivere, a maturità devono disperdere i semi nell’ambiente; i semi devono anche difendersi dai predatori: per questo sono ricoperti da involucri legnosi che li proteggono. Questi caratteri erano molto svantaggiosi per i nostri progenitori. Cosa ci sarebbe stato di meglio che trovare spighe mature con ancora i semi attaccati alla spiga, semi non ricoperti da involucri che potessero essere subito macinati piuttosto che sbucciati uno ad uno?



E cosa è accaduto?

È accaduto che alcune spighe hanno subito delle mutazioni genetiche spontanee e i nostri antenati sono riusciti a notarle e a comprenderne il valore. Sono piante che potrebbero facilitare la raccolta del cibo e valeva la pena vedere se questi caratteri si mantengono anche nelle generazioni successive. Ha avuto così inizio un doppio processo: la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quei mutanti con caratteristiche per lui favorevoli e la coltivazione che implica la conservazione del seme, la preparazione del terreno, la raccolta, cioè un preciso progetto culturale.



Dove si sono verificati questi fatti?

La cosa sorprendente è che, a partire da 12-10000 anni fa, la domesticazione e la coltivazione si sono ripetute indipendentemente in diverse parti del pianeta. L’inizio è avvenuto nella cosiddetta Mezzaluna fertile, un arco che sale da Israele, Siria, Turchia e poi scende verso l’Iraq e l’Iran. Qui sono state ritrovate le tracce più antiche di agricoltura e da qui sorgeranno le grandi civiltà antiche. Ma anche in altre aree il fenomeno si è presto diffuso. In Cina, nel delta dello Yangtze, dove nascerà il futuro impero cinese: le paludi del delta sono l’ambiente ideale per il progenitore del riso moderno e per coltivarlo si è creata la risaia costruendo canali e sbarramenti per l’acqua. Più a nord invece, nelle valli del Fiume Giallo, c’è la patria del miglio; e poi anche la soia, la melanzana, il pesco e tante altre piante che oggi usiamo. Nel continente americano la grande foresta amazzonica divide i domesticatori del mais, dei fagioli e delle zucche, le tre sorelle dei contadini Maya, dal popolo quechua, il futuro fondatore dell’impero Inca, domesticatore e coltivatore di patata, quinoa, oca (l’Oxalis tuberosa) e pomodoro.

 

Dopo questi promettenti inizi?

Si può dire che l’impegno dell’uomo per rendere meno aleatorio il proprio cibo non si sia più fermato: è stato un susseguirsi di innovazioni che hanno rivoluzionato la produzione di cibo, rimodellato il paesaggio, generato nuovi assetti sociali. I primi suoli utilizzati per la coltivazione sono quelli delle antiche praterie e il contadino doveva ”rompere” il terreno affinché la semente potesse germogliare. L’invenzione dell’aratro trainato da animali domesticati predispone il terreno a ricevere il seme e a ricoprirlo e, con la semina in file diritte e parallele, consente l’estensione e la piena valorizzazione delle superfici coltivate. Ma ci sono stati altri problemi da risolvere e soluzioni da inventare: mantenere la fertilità del terreno con il maggese, la rotazione, la concimazione e con i fertilizzanti moderni, raccogliere in modo efficiente la messe, ripulirla, proteggerla dai nemici (muffe, roditori ecc.) e conservarla nei granai per sopperire alle annate magre.

 

Quindi mettere in atto una sorta di politica agricola?

Sì, direi una vera politica, che pensi al bene del popolo non solo per l’oggi ma anche per il domani. Mettendo in campo tutte le possibili idee e soluzioni. Si pensi al problema degli infestanti. Le piante domesticate, proprio perché non più selvatiche, non sono in grado di proteggersi da sole da virus, batteri, funghi, insetti o competere con le erbe infestanti. Ciò era ben chiaro agli antichi coltivatori che inventarono una serie di tecniche per proteggere, curare, ”allevare” le piante, badando all’aspetto produttivo e anche a quello estetico. Sono nati così l’innesto e l’ordinato posizionamento degli alberi nel frutteto per migliorare la ”cattura” della luce. E quando serve, bisogna agire per combattere le malattie. Già i Sumeri usavano lo zolfo per combattere gli insetti dannosi.

Che dire del problema dell’acqua?

Il problema dei problemi, oggi e allora, è sempre quello dell’acqua: senza acqua o con troppa acqua non c’è raccolto. E proprio l’accesso all’acqua è stato ed è causa di infiniti conflitti. Ma anche di soluzioni esemplari e durevoli. Come quella dei monaci benedettini che, in un periodo storico dove l’Europa veniva messa a ferro e fuoco dalle invasioni barbariche, ricominciarono a costruire, ponendo le basi per quella che sarebbe diventata l’attuale Europa. E allora la palude venne bonificata, si inventarono le marcite e i campi diventarono fertili.

 

In questo lungo cammino non sono mancate le difficoltà e gli insuccessi…

 Ci sono state anche catastrofi causate dall’imprudenza dell’uomo; come la diffusione della monocultura della patata in Irlanda, che ha dato ampie opportunità alla peronospora di distruggere i raccolti, causando centinaia di migliaia di morti per fame. È una battaglia senza fine, se ne avrà un’eco anche durante questi mesi di Expo. Una battaglia che si deve però combattere utilizzando tutte le risorse a nostra disposizione, consapevoli che ogni progresso tecno-scientifico può comportare un contraltare problematico con cui fare i conti.

 

L’invenzione dell’agricoltura è stata il cuore della rivoluzione neolitica; ma dodicimila anni dopo, c’è stato un altro passaggio epocale: la ”rivoluzione verde”. Come è avvenuta?

A cavallo tra il XIX e il XX secolo, sulle orme dell’abate Gregorio Mendel, fondatore della genetica, e di uomini come il nostro Nazareno Strampelli, il russo Nikolaj Vavilov, l’americano Norman Borlaugh e molti altri scienziati, sono state poste le basi teoriche e pratiche per aumentare drasticamente le produttività agricole. Nascono i frumenti a taglia bassa che sopportano elevate dosi di fertilizzanti azotati e fanno aumentare la produzione da 10 quintali agli attuali 60-70 quintali ettaro. Si trovano varietà geneticamente resistenti a malattie come la ruggine bruna del frumento, che nelle annate più sfavorevoli arrivava a distruggere più della metà del raccolto. E inizia l’era degli ibridi, che nel mais ha permesso di incrementare la produzione dai circa 30 quintali/ettaro degli anni 50 del secolo scorso, agli attuali 90-100 quintali/ettaro.

E domani? Cosa possiamo fare per ”Nutrire il Pianeta”?

Le previsioni demografiche dicono che la popolazione mondiale crescerà di 2 miliardi di uomini nei prossimi due decenni. Ci sarà cibo per tutti? Cosa possiamo e dobbiamo fare? Ci sono opzioni che è meglio evitare, come aumentare la superfice coltivata a spese di boschi e praterie. Possiamo ridurre il consumo di calorie e di carne nei paesi che più ne fanno uso. C’è poi la questione degli sprechi e delle perdite: nei paesi ricchi circa il 30% dei prodotti alimentari viene sprecato (lungo la catena di distribuzione, nelle mense e in casa), mentre nei paesi poveri, un’aliquota consistente di derrate alimentari si perde nel campo e nei granai a causa di predatori e cattive condizioni di immagazzinamento. Possiamo lavorare per incrementare la produttività, mediante i tradizionali procedimenti di incrocio e selezione, ma anche attraverso nuove tecniche fra cui l’ingegneria genetica che permette di dotare le piante di caratteri vantaggiosi con maggior precisione e tempi ridotti rispetto al passato.

 

Accennando a questi temi, Papa Francesco ha detto (5-6-2013): ”stiamo veramente coltivando e custodendo il creato? Oppure lo stiamo sfruttando e trascurando? … Coltivare e custodire il creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi”. Cosa significa per lei?

Penso che se non interpretiamo la natura secondo una direzione, un fine, viene a mancare il criterio adeguato cui commisurare le nostre azioni; perché la realtà è sempre commistione di sensato e insensato e anche il progresso tecnologico produce un misto di bene e male. Ma la consapevolezza dei problemi non può tradursi in rinuncia all’operatività: l’uomo è provocato continuamente ad agire, a rispondere ai bisogni esprimendo le sue facoltà di comprensione, di decisione, di costruzione. Occorre ricordare il significato di ”coltivare”, che non è solo quello di far crescere le piante, ma anche ”aver cura, rispetto, prestare servizio, rendere culto”, cioè in fondo stabilire un rapporto di mutua dipendenza dell’uomo con la terra che lo ospita: non dominatore, né casuale inquilino, ma ”coltivatore”. E su questa base riscoprire il concetto di temperanza – rinunciare a qualcosa in nome di un valore più grande – base di ogni corretto rapporto tra uomo e uomo, tra uomo e ambiente. Così, consapevoli dei nostri limiti, possiamo ugualmente essere fiduciosi e positivi, proprio perché siamo eredi di un’esperienza millenaria che ha saputo leggere con umiltà e attenzione i segni che la natura ci invia e la ragione ci fa comprendere.

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