Ogni anno spendono due mesi “sul terreno” e la stagione migliore per queste ricerche è l’inverno: stiamo parlando dell’equipe dell’Università degli Studi di Milano e del Centro Studi Sudanesi e Subsahariani che conducono in collaborazione studi archeologici e paleo ambientali; e il “terreno” è il Sudan centrale e in particolare la sponda occidentale del Nilo Bianco, in prossimità della confluenza con il Nilo Blu. Queste attività, alle quali ha ampiQuando intorno al Nilo non c’era un deserto ma una regioen ricca di vegetazione: gli studi amente collaborato anche l’Università di Adelaide (Australia), hanno avuto recentemente un notevole risalto, con una pubblicazione sulla rivista Quaternary Science Reviews nella quale si descrive come, a partire da circa 10.000 anni fa, sia cambiato il regime idrico del Nilo e quali siano state le conseguenze sul paesaggio fisico e sulle comunità di cacciatori e raccoglitori mesolitici che vivevano lungo le sue sponde.



Andrea Zerboni, ricercatore in Geografia Fisica e Geomorfologia presso il Dipartimento di Scienze della Terra “A. Desio” dell’Università degli Studi di Milano, ha spiegato a ilsussidiario.net la modalità e il valore di queste ricerche. «Il Centro Studi Sudanesi e Subsahariani, col quale l’università di Milano ha in atto una collaborazione ufficiale, lavora in Sudan dal 2000; noi lo affianchiamo dal 2002 e ormai le operazioni vengono condotte in piena collaborazione. Il centro è costituito soprattutto da archeologi; noi mettiamo invece a disposizione le conoscenze inerenti più alle scienze della terra, a quella che si chiama geoarcheologia dove le discipline geologiche vengono applicate allo studio dei siti archeologici, dei contesti in cui vivevano le comunità del passato. Studiamo come si è formato il sito e come sono variati il paesaggio e il clima nel corso dei millenni». 



Negli ultimi quattro anni si sono concentrati soprattutto sulla relazione tra questi siti mesolitici, che hanno 8000 – 7000 anni e il comportamento del fiume Nilo; il lavoro è stato condotto con numerosi strumenti metodologici (analisi dei materiali archeologici, datazioni radiometriche, studio dei sedimenti e dei resti animali) e ha permesso di evidenziare la stretta interconnessione di storia ambientale e umana. La regione è attualmente desertica, fatta eccezione per una striscia verde coltivata che corrisponde alle aree di esondazione del Nilo. Numerose evidenze geologiche ed archeologiche hanno però dimostrato che nel corso dell’Olocene (ovvero gli ultimi 10.000 anni) la stessa regione era densamente popolata da gruppi di pescatori – cacciatori – raccoglitori prima e allevatori poi, la cui sopravvivenza era garantita da una maggiore disponibilità d’acqua, che sosteneva una buona copertura vegetale e contribuiva ad alimentare numerosi laghi, frequentati da animali selvatici. Quelle condizioni sono durate per circa 5.000 anni e l’ambiente di allora assomigliava, per certi versi, a quello che attualmente si osserva più a sud, sempre in Sudan e lungo numerosi altri grandi fiumi dell’Africa sub-sahariana.



«Quella situazione favorevole del Nilo è legata fondamentalmente ai cambiamenti climatici: nella parte iniziale dell’Olocene (cioè gli ultimi 10000 anni) c’è stato un aumento delle precipitazioni su tutto il continente africano, ovvero i monsoni avevano maggiore intensità e riuscivano a portano le piogge fino all’interno dell’Africa, fino al deserto del Sahara. L’area studiata da noi è un po’ al margine del Sahara ed è attualmente una zona desertica; ma tra 10000 e 5000 anni fa era più verde, pioveva di più e soprattutto il Nilo aveva una portata maggiore, aveva un livello più alto, alcuni metri in più di quello attuale Era quindi un fiume più maestoso e di conseguenza attirava molto di più sia la fauna che le comunità umane». 

Quello che hanno scoperto era in qualche modo prevedibile? «Sono decine di anni che si studia il clima nel Nord Africa e si sapeva grosso modo quale fosse il trend climatico nell’Olocene: dapprima più piovoso e poi progressivamente più arido. Quello che è stato interessante vedere è la ricostruzione precisa de livello del Nilo e soprattutto come tutto l’ambiente attorno al Nilo sia cambiato. Non ci siamo concentrati solo sul fiume ma su tutta la regione circostante: anche quella, attualmente desertica, un tempo era occupata da paludi, da stagni ed era un paesaggio molto più composito di quello che vediamo adesso».

Un altro aspetto interessante fatto osservare da Zerboni è la capillarità con la quale i siti archeologici sono localizzati lungo le antiche sponde del fiume «perché facevano da ponte tra la zona fluviale e l’entroterra dive vivevano gli animali selvatici e dove le popolazioni praticavano la caccia» …

Il discorso della caccia ci porta a quello delle abitudini alimentari, sulle quali il gruppo sta conducendo interessanti studi; soprattutto da parte degli archeologi e degli archeozoologi, che studiano i resti di animali, e degli archeobotanici che studiano i resti della vegetazione. «Quel che possiamo dire ora è che queste popolazioni nel Mesolitico erano sicuramente pescatori e in parte anche cacciatori. Il Nilo era vicino e loro avevano costruito una serie di strumenti, comprese reti e altre attrezzature per facilitare la pesca; nei siti possiamo trovare una enorme quantità di ossa di pesce , addirittura delle lische intere e perfettamente conservate che testimoniano come probabilmente pulissero accuratamente i pesci prima di cibarsene. Probabilmente i vari pesci presenti nel Nilo erano la loro principale fonte di sopravvivenza; insieme agli animali selvatici, come le grosse antilopi che erano cacciate intensamente» 

Tutto ciò si sapeva già, anche se non con la precisione e i dettagli che trovati recentemente e descritto nell’articolo citato. Un fatto piuttosto nuovo però è stata la scoperta che quelle popolazioni si cibavano molto anche di molluschi: non quelli che vivono nel Nilo ma quelli presenti negli stagni e nelle paludi delle zone circostanti il grande fiume. Sono state trovate all’interno del sito delle stratificazioni di oltre un metro costituite solo da resti di questi molluschi, per lo più gasteropodi, che venivano sicuramente mangiati. 

«Dal punto di vista delle abitudini alimentari dei nostri progenitori, lo studio di questi siti ci permette di ricostruire un mosaico molto complesso e ricco. Non è solo la caccia e la pesca: queste popolazioni di 8000 anni fa riuscivano a utilizzare al meglio tutte le risorse che l’ambiente offriva e probabilmente lo sfruttamento delle varie risorse aveva un andamento stagionale: c’era una stagione dove era più facile accedere ai pesci, quella in cui era preferibile ricorrere agli animali selvatici e quella in cui la risorsa principale potevano essere i molluschi. Accanto a questo c’erano le risorse vegetali  questa gente sicuramente raccoglieva  i prodotti della vegetazione spontanea. Ma su tutti questi aspetti stiamo ancora lavorando e ci servono ulteriori studi e analisi».

La ricerca quindi continua. Fin dagli anni ’50 del secolo scorso ci sono state molte ricerche (inglesi, italiane e tedesche) in Sudan ma concentrate nella parte settentrionale o nella zona di Khartoum. «Invece di questa regione che si estende lungo il Nilo Bianco si conosceva pochissimo e dagli scavi che stiamo svolgendo da una decina d’anni affiorano cose molto interessanti, che ci danno un quadro nuovo sulla regione. Sono aree abitate nel Mesolitico ma anche nel Neolitico, fino a 5-6mila anni fa, e successivamente, in epoca storica, sono tornate ad essere popolate. Conosciamo ancora poco ma, singolarmente, tra questo poco c’è la presenza di diversi insediamenti con tracce molto significative di varie attività domestiche, dai fuochi alla raccolto delle immondizie. E ci sono numerose aree adibite a sepoltura: troviamo cimiteri neolitici, quindi molto antichi, e poi molti cimiteri di epoca storica».  

Ora Zerboni e colleghi si preparano per un’ulteriore missione, che dovrebbe svolgersi (sperano) nel novembre – dicembre prossimi: l’aspettativa resta elevata.