Il termine biofotonica è stato introdotto una quindicina d’anni fa ma negli ultimi tempi ha avuto una considerevole diffusione, che riecheggerà in questi giorni per un evento internazionale che inizia oggi a Firenze: si tratta di BioPhotonics 2015, la terza Conferenza Internazionale sulla Biofotonica organizzata dall’Istituto di Fisica Applicata del Cnr e dalla sezione IEEE Italia.Uno degli speaker del convegno e uno dei pionieri di questa giovane disciplina è Alberto Diaspro, genovese, ingegnere elettronico, professore di biofisica e fisica applicata all’Università di Genova e direttore del Dipartimento di Nanofisica dell’IIT, l’Istituto Italiano di Tecnologia. Con lui ci inoltriamo nelle meraviglie della biofotonica.
«Con questo termine ci si riferisce all’insieme degli studi e delle applicazioni della luce, cioè dei fotoni, per studiare i sistemi viventi. Molto spesso si utilizza luce visibile, in alcuni casi si ricorre all’infrarosso».Per comprendere meglio di cosa si tratta, bisogna fare un’osservazione preliminare riguardo ai viventi: i componenti cellulari che costituiscono tessuti e organi sono per la maggior parte “trasparenti” alla luce visibile; cioè, quando noi riceviamo la luce del Sole, i componenti biologici del nostro corpo non la assorbono; se la assorbissero potremmo avere innalzamenti di temperatura che finirebbero per cuocerci.
Qualche numero può dare meglio l’idea della situazione: la luce visibile va dalle lunghezze d’onda del rosso (700 nanometri) a quelle del blu (360-400 nm); l’ultravioletto è sotto i 360 nm e la sua pericolosità è dovuta al fatto che il Dna e le proteine assorbono le radiazioni tra i 220 e i 260 nm quindi, se sono sottoposti a luce di quelle lunghezze d’onda, assorbendola, innalzano la loro temperatura fino a danneggiarsi fino a indurre processi tumorali. «Ora, la biofotonica utilizza tutta la radiazione visibile, quella infrarossa e una parte della ultravioletta; queste due sono scarsamente percepibili dall’occhio umano che invece capta molto bene quella visibile con particolare abilità per quella corrispondente al colore verde».
Il fatto che la luce penetri bene nei viventi è interessante perché significa che, con strumenti che utilizzano la luce, il vivente può essere studiato non solo nella sua configurazione attuale ma anche nelle sua evoluzione nel tempo (cosa che invece non può essere fatta con altri sistemi, pur sofisticati, come ad esempio i microscopi elettronici).
Insieme a Diaspro possiamo ricostruire le tappe salienti che hanno condotto agli sviluppi attuali; e sono tappe tutte segnate da premi Nobel. A cominciare dal 1964, quando Charles Townes, Nikolay Basov e Alexander Prokhorov hanno ricevuto il Nobel per l’invenzione del laser: è stato un grande passo avanti nella fotonica, perché col laser si è potuto disporre di sorgenti particolarmente brillanti. Ma si può risalire ancor più indietro, agli anni ‘20 , quando Richard Zsigmondy aveva conquistato il prestigioso premio per aver studiato le proprietà dei colloidi a una scala molto fine utilizzando la luce. Poi si può citare lo stesso Camillo Golgi, primo Nobel italiano, o il fisico indiano C. V. Raman, premio Nobel nel 1930 per i suoi studi sulla diffusione della luce e per la scoperta di quello che ora è noto come “effetto Raman”; o ancora, Steven Chu, padre della spettroscopia laser e Nobel nel 1997.
«Se vogliamo ricordare chi più ha studiato l’interazione della luce col vivente dobbiamo senz’altro nominare il fisico olandese Frederik Zernike, Nobel nel 1953, per l’invenzione del microscopio a contrasto di fase». Seguiamo Diaspro nella spiegazione. «La considerazione fatta prima, che il vivente è trasparente, significa che o io trovo un meccanismo particolarmente intelligente oppure non riesco a produrre delle immagini, essendo appunto il corpo trasparente. Però la luce è un mix di due informazioni: una associata all’ampiezza (che determina la brillantezza) e una associata alla fase (associabile al fatto che la luce impieghi un certo tempo ad attraversare la materia). Ora l’invenzione da parte di Zernike del microscopio fotonico “a contrasto di fase” è in sostanza un modo per trasformare in intensità luminosa i differenti tempi con cui la luce attraversa la materia e quindi è un modo per rendere visibili le cellule che altrimenti resterebbero invisibili».
L’informazione di fase è una di quelle che tutti usiamo quotidianamente quando cogliamo la tridimensionalità: davanti a una scena reale, cioè tridimensionale, noi senza accorci in qualche modo calcoliamo i diversi tempi che la luce impiega a passare dagli oggetti fino a noi: «lo possiamo fare perché abbiamo due occhi, con i quali riusciamo ad “estrarre” le due informazioni ampiezza e fase e riusciamo a farlo anche se guardiamo la scena su un supporto bidimensionale, come una cartolina; è il nostro cervello che trova il modo di recuperare l’informazione mancante». Una riprova di questa capacità di ricostruire le informazioni visive è venuta con l’invenzione degli ologrammi, negli anni ’70 da parte di Dennis Gabor: l’ologramma è un modo per rappresentare su un supporto bidimensionale un’informazione tridimensionale.
Più vicino a noi, negli ultimi anni, Diaspro ricorda due Nobel particolarmente significativi per la biofotonica.Nel 1962 il chimico e biologo marino giapponese Osamu Shimomura aveva scoperto una cosa impressionante: nelle profondità marine le meduse possono attivare delle proteine che sono fluorescenti, cioè se investite di radiazioni nell’ultravioletto o nel blu emettono luce verde. Successivamente Martin Chalfie e sua moglie hanno scoperto che queste proteine possono essere prodotte da qualunque organismo vivente e in modo molto specifico, in diverse parti dell’organismo; e Robert Tsien ha scoperto che possono emettere in tutti i colori dopo una piccola modifica ad alcune sequenze di amminoacidi. «Il loro premio Nobel nel 2008 è ampiamente giustificato: sono riusciti a far sì che il vivente emetta radiazione luminosa senza dover introdurre dei marcatori dall’esterno».
Restava un problema da risolvere: quello della diffrazione, che limita i dettagli che si possono cogliere con la luce a un valore non inferiore ai 200 nanometri mentre le proteine e il Dna hanno dimensioni di pochi nanometri. Ecco allora l’ultima scoperta importante, che ha fatto guadagnare il Nobel lo scorso anno a Eric Betzig, Stefan W. Hell e William E. Moerner: è il metodo per arrivare alla super risoluzione ottica, che vuol dire che il microscopio ottico non ha più alcun limite quanto ai dettagli esplorabili, ancor meglio di un microscopio elettronico: la risoluzione è illimitata. È possibile così ampliare il dominio di quella che ormai si definisce nanobiofotonica, che si riferisce alla possibilità non solo di studiare il vivente ma di studiarlo alla cosiddetta nanoscala, cioè a livello delle singole molecole biologiche, delle singole proteine e macromolecole.
«Il punto di forza della biofotonica è di poter operare sul vivente a temperatura ambiente, in condizioni quindi in cui il vivente non è fermo; ma allora questo movimento potrebbe far perdere il vantaggio della super risoluzione, dato che l’oggetto studiato è comunque in movimento. Si è dovuto raggiungere una posizione di compromesso e si è stabilito a 30 nanometri il livello che garantisce di vedere l’ultrapiccolo nei viventi senza perdere informazioni preziose».
Cosa si può studiare con la biofotonica e domani sempre più con la nanobiofotonica? Possiamo capire come funzionano i biosensori; possiamo sperimentare nuove metodologie terapeutiche e diagnostiche basate su nanoparticelle laser-attivabili; si possono sviluppare tecniche di microfluorimetria per la localizzazione di biomolecole; si può fare sperimentazione preclinica e clinica di laser-terapie fototermiche minimamente invasive in oculistica, neurochirurgia, dermatologia e chirurgia plastica.
E ancora, aggiunge Diaspro, si possono «studiare i biomateriali con i quali si possono sostituire parti del corpo umano; e si possono analizzare gli effetti della radiazione luminosa sui nuovissimi materiali biocompatibili come il grafene. Non solo: esistono dei nuovi materiali dei quali posso cambiare le proprietà fisiche, chimiche e batteriologiche utilizzando i fotoni. Infine, per toccare un tema in primo piano in questi mesi come la sicurezza alimentare, si può utilizzare la nanobiofotonica per vedere se ci sono delle contaminazioni nei cibi».
(Mario Gargantini)