Un lavoro di riordino di un archivio di vecchie mappe può essere l’occasione per ricostruire l’evoluzione del nostro modo di rappresentare il territorio e può mostrare in una luce nuova i vantaggi dei moderni metodi di rappresentazione cartografica, fornendo al contempo ai geologi dati preziosi per studiare l’evoluzione di determinati ambienti e dando ai pianificatori indicazioni ambientali importanti per orientare gli interventi di protezione e tutela. È quanto è accaduto ai ricercatori dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) del Cnr che, presso l’Istituto di Studi Adriatici che faceva parte delle sede veneziana dell’ISMAR, hanno recuperato un notevole patrimonio di carte storiche che ha loro consentito di raccontare l’evoluzione della rappresentazione cartografica del territorio costiero e marino, dal XVI secolo a oggi attraverso il percorso espositivo della mostra “La mappa non è il territorio”, esposta dapprima presso l’Arsenale di Venezia e ora all’interno di Aquae Venezia 2015, il padiglione veneziano di Expo dedicato all’acqua.



Una delle curatrici dell’esposizione, Elisabetta Campiani dell’ISMAR di Bologna, ci ha accompagnato nella consultazione di questo pregevole materiale storico, non senza aver sottolineato come l’interesse di una simile ricostruzione vada al di là delle competenze specialistiche cartografiche o geologiche: «Lo si comprende dallo stesso titolo che abbiamo scelto, prendendo spunto da un brano di Gregory Bateson, nel suo celebre Verso un’ecologia della mente, dove si dice che una mappa sarà sempre diversa dal territorio. La rappresentazione non è mai scevra dalle interpretazioni e la realtà è sempre molto di più e di diverso da come la riporto in una mappa. Gli elementi che ci colpiscono in un territorio e che decidiamo di rappresentare sono diverse in funzione della nostra cultura, degli interessi della società e delle possibilità di osservazione offerte dalla tecnica; e una mappa non potrà mai rappresentare tutti gli aspetti del territorio: le nostre rappresentazioni sono perciò parziali e si fanno al prezzo di semplificazioni».



In mostra viene riportato l’esempio dei Polinesiani, che rappresentavano i fronti d’onda, di cui tener conto per navigare da un’isola all’altra, con un sistema di bastoni dove le conchiglie identificavano le isole: in questa mappa del territorio marino non erano realistiche le proporzioni cartografiche, ma era colta la “relazione”.

Il filo conduttore della mostra è la misura della profondità dei mari, detta batimetria, dalle prime stime, ottenute calando un sasso appeso ad una fune, agli ecoscandagli, fino alle recentissime tecniche di rilevamento geofisico. Il confronto tra mappe antiche documenta, da un lato, l’evoluzione delle linee di costa e il progressivo aumento di interesse per l’andamento dei fondali e, dall’altro, l’evoluzione stessa della cartografia come tecnica di rappresentazione che oggi può cogliere aspetti un tempo non osservabili.



Si passa via via dalla visione bidimensionale, la raffigurazione della linea di costa, a quella tridimensionale, il mare e la sua profondità, rappresentata prima come valori puntuali, successivamente come curve di livello e, oggi, come modello digitale del terreno. «Definita la forma del contenitore “mare”, si offrono alcune visioni quadridimensionali, che tentano di coglierne l’evoluzione temporale: l’estensione dell’Adriatico che cambia in funzione delle variazioni del livello del mare, per formazione o scioglimento dei ghiacci polari, e la circolazione delle masse d’acqua, al suo interno, che cambia in funzione delle stagioni e del clima e che può essere rappresentata dai nuovi modelli oceanografici sviluppati da ISMAR».

Colpiscono i primi tentativi di misura della profondità dell’ambiente marino e il cambio di prospettiva della cartografia nel ‘700, evidenziato da un esemplare di portolano veneziano dell’Adriatico del 1793 che riporta per la prima volta valori di profondità e linee di uguale profondità (isobate), le quali rappresentano l’andamento dei fondali antistanti la porzione meridionale della Laguna dove stava avanzando il delta del Po dopo il taglio di Porto Viro. Per arrivare alle carte batimetriche moderne dell’Adriatico: dapprima la Carta Batilitologica della Piattaforma Litorale Italiana (1937), che mostra la distribuzione degli affioramenti rocciosi e dei depositi sabbiosi o fangosi superficiali; poi la Carta batimetrica redatta da Mosetti nel 1969), che si basa su dati di ecoscandaglio a fascio singolo e interpolazioni; infine la Mappa batimetrica della parte italiana dell’Adriatico, recentemente costruita dagli scienziati dell’ISMAR in base a 20 anni di rilievi con ecografo a fascio singolo.

«Mentre raccoglievamo questo materiale, erano iniziati nella laguna di Venezia dei rilievi batimetrici ad altissima definizione: parliamo di valori fino a 20 centimetri di definizione. Era la prima volta che si facevano studi con questo livello di accuratezza: per rilievi così si deve utilizzare uno strumento particolare, l’ecoscandaglio a fascio multiplo (multibeam echo-sounder): è uno strumento che si è affermato nell’ultimo decennio e consente la copertura totale del fondo inviando e ricevendo segnali in una fascia estesa fino a 10 volte la profondità media: su un fondale di 1000 m si ottengono dati su una “spazzata” di cinque chilometri su ognuno dei lati della rotta». Il bacino dell’Arsenale è divenuto quindi luogo di test dei nuovi ecoscandagli multibeam: l’attività di misura mostra una profondità massima di 8 metri e la presenza di strutture di origine antropica legate a dragaggi, trascinamento di ancore e scarico di materiali. I rilievi laser-scanner combinati con quelli batimetrici multibeam permettono contestualmente di definire i primi metri di superficie emersa e sommersa.

Per evidenziare i vantaggi delle moderne tecniche di rilevamento, Campiani ci mostra il confronto tra una mappa storica del bacino di San Marco, col canale punteggiato di numeri indicanti la profondità stimata, e l’immagine a colori ricavata dal multibeam sovrapposta a una videata di Google Earth. «Rilievi di questo tipo sono importanti per la nostra conoscenza dei mari e dei processi che vi si svolgono; ma possono anche servire alla comunità per pianificare interventi, per orientare più completi studi ambientali. Il dettaglio centimetrico di cui ho parlato, può servire a mirare con esattezza successive ricerche sulla dinamica delle correnti, l’accumulo degli inquinanti e la distribuzione degli habitat sottomarini».

Gli strumenti più moderni, mostrando più efficacemente la ricchezza e la varietà degli ambienti naturali, paradossalmente accentuano l’idea della irriducibilità del territorio ad ogni sua, per quanto sofisticata, rappresentazione; anche se invogliano a incrementare le indagini, raccogliendo lo spunto di Italo Calvino (Le città invisibili) citato all’inizio della mostra: «Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto».