Nell’estate di 400 anni fa Galileo Galilei completava la lettera indirizzata a Cristina di Lorena granduchessa di Toscana, lettera che il grande scienziato aveva iniziato nel febbraio dello stesso anno e che rappresenta il tentativo teorico più maturo di Galileo nello sforzo di chiarificazione del rapporto tra i saperi. Proprio sulla celebre “Lettera” si è concentrata recentemente la riflessione di Flavia Marcacci, docente di storia del pensiero scientifico presso la Pontificia Università Lateranense, in una conferenza dal titolo significativo: “Galileo e Maria Cristina di Lorena, una storia da osservare. La questione galileiana tra epistemologia e ontologia storica”; l’occasione è stato il VIII workshop della Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare, svoltosi a Roma nello scorso week-end.



Il punto di partenza della riflessione della Marcacci è molto esplicito: il lavoro scientifico non è mai avulso dalle visioni filosofiche del mondo nelle quali esso si svolge e si sviluppa, scienza, filosofia e storia sono sempre fortemente intrecciate, al punto che la storia diventa il luogo dove si manifestano nodi teoretici importanti e con profonde ripercussioni.



Secondo la docente, trattare la storia “filosoficamente” non significa produrre necessariamente storicismi, idealismi o relativismi: la storia richiede una precisa disciplina metodologica, muovendosi dalla quale è importante lasciarsi interpellare filosoficamente dai dati raccolti. Non tutta la storia infatti è meramente storia materiale, arida elencazione di fonti.

Nell’osservare il dialogo tra Galileo e Maria Cristina di Lorena non si può prescindere dall’indagine del ruolo che la Lettera ha avuto nell’impostare una specifica concezione del rapporto tra esegesi, teologia e scienza. Sullo sfondo della lettera campeggia la vicenda galileiana tout court, rispetto alla quale è stato scritto così tanto che oggi è quasi impossibile dire qualcosa di veramente nuovo. Occorre dunque lasciare che siano i documenti a parlare leggendoli prima a “occhio nudo”, ascoltando cosa essi dicono; riprendendoli poi al “microscopio”, confrontandoli con alcune fonti meno conosciute che vanno al dettaglio di questioni cruciali del tempo.



Spesso infatti non si considera una folta letteratura secondaria, che però permetterebbe di arricchire molto la visione sulla vicenda in oggetto. Ad esempio esiste un’epistola anonima, forse scritta da Retico, dedicata al moto della Terra, la quale condivide sia le medesime argomentazioni galileiane della lettera a Madama Cristina sia la ripresa esplicita dell’agostiniano de Genesi ad litteram.

L’incerta datazione dell’anonimo testo ne fa oscillare la composizione tra metà ‘500 e primo ‘600, in ogni caso questo scritto ci dice che Galilei non era il solo né probabilmente il primo ad utilizzare un determinato apparato concettuale: c’era una cultura e una sensibilità condivisa e diffusa. Accanto all’anonimo occorre accostare la numerosissima produzione di testi di astronomia che vennero pubblicati ai tempi di Galileo per comprendere, calcoli alla mano, quale modello cosmologico fosse più semplice e comodo adottare. Scorrendo questi studi si scopre come la maggior parte degli astronomi adottasse un modello misto semi-geocentrico, simile alla proposta di Tycho Brahe. Infine, a rendere ancora più complesso il quadro, occorre ricordare la forte presenza nella cultura del tempo sia dell’astrologia, a cui l’eliocentrismo poneva serissimi problemi, sia del ricorso ai commentari biblici come fonte di conoscenza per la filosofia naturale.

Nonostante questo quadro non certamente semplice, Galilei era convinto che il papato non potesse non accettare la sua riforma della scienza. Nella lettera a Madama Cristina Galilei propone, accanto ai classici principi di ermeneutica biblica, anche il principio di indipendenza delle discipline. La nuova filosofia naturale avendo come oggetto di studio una Natura ritenuta assoluta ed inesorabile può giungere, almeno in parte, a risultati indubitabili, tanto certi quanto le verità di fede. Alla luce di ciò, come i teologi vengono interpellati per la spiegazione dei passi biblici, così i filosofi della Natura possono avere secondo Galilei una libertà interpretativa sul testo Sacro per quanto compete la loro disciplina.

Ovviamente la proposta galileiana non mancò di suscitare reazioni: dal carteggio tra il cardinale Bellarmino e padre Foscarini sull’ammissibilità del copernicanesimo rispetto al dato scritturistico, alla difesa della libertas philosophandi nell’Apologia pro Galileo del Campanella.

Contestualizzata la lettera nella sua cornice storica, Flavia Marcacci è passata ad osservare la medesima vicenda non più con il “microscopio” del rigore storico, ma con il “telescopio” delle visioni d’insieme, ovvero influenzati dalla storia successiva. Qui emergono tutte le opportunità che la questione galileiana offre per affrontare il tema della ricezione della nascita della scienza moderna. Ineliminabile il confronto con due autori che per questo aspetto hanno avuto un peso non trascurabile, Kuhn e Koyrè, l’apporto dei quali è stato ripensato nei recenti sviluppi della storiografia scientifica.

Ecco che allora interpretare la rivoluzione scientifica per paradigmi o speculare su un Galileo platonico diventa alquanto parziale e solleva considerazioni filosofiche profonde. Prima di tutto bisogna chiedersi in che modo si possa fare una storia della scienza che offra grandi sintesi senza trasformarla in una filosofia della storia; in secondo luogo si giunge a chiedersi quale rapporto esista tra la scienza e la realtà oggetto delle teorie scientifiche alla luce della storia della scienza in modo da evitare forme di storicismo e relativismo.

In questo ambito il caso di Kuhn per la Marcacci è particolarmente emblematico. Nel proporre la sua teoria delle struttura delle rivoluzione scientifiche passò con molta facilità dall’aspetto storico a quello filosofico, ma quanto realmente Kuhn si confrontò con la letteratura minore e secondaria? Il grande rischio di questo autore, che pure ha dato un grande contributo alla storia delle idee, è di ridurre l’ontologia storica a mera epistemologia storica, eliminando il riferimento alla realtà oggetto della scienza e chiudendo ogni stagione scientifica dentro il proprio paradigma di riferimento. Il risultato è una forma di relativismo, dove non esiste alcuna comprensione che possa giustificare la successione dei paradigmi.

A Kuhn, Flavia Marcacci risponde con la citazione di un grande teologo e filosofo gesuita del ‘900, Bernard Lonergan: “le cose possono non cambiare, ma la loro comprensione da parte dell’uomo può svilupparsi” [tratto dall’opera Insight]. Per fare una corretta storia della scienza occorre tenere in considerazione che la realtà si disvela attraverso l’evoluzione delle teorie scientifiche; questa è un’adeguata ontologia storica che non voglia chiudersi in uno storicismo relativista. La storia è certamente il regno degli eventi individuali, ma si tratta di eventi con delle cause precise a cui la nostra ragione può risalire. L’essenza del reale è dunque un’essenza dinamica che si svela attraverso il processo storico.

Infine la Marcacci ha sottolineato come la lettera a Madama Cristina mostri l’inesauribile importanza del lavoro interdisciplinare tra teologia, filosofia e scienza per promuovere realmente il lavoro scientifico, il quale inevitabilmente assume sul suo sfondo una qualche epistemologia, ontologia e teologia. Infatti la vicenda galileiana alla luce delle analisi svolte non solo propone ma probabilmente impone ancora oggi l’urgenza di una teologia della scienza, di una riflessione teologica sistematicamente protesa alla scienza considerata come un valore e magari in grado di fornirle strumenti atti ad ampliare la conoscenza intorno agli oggetti empirici.