Ogni anno nel mondo si producono 135 milioni di biciclette: di queste circa il 2% è di tipo ”pieghevole”, per intendersi quelle che si possono ridurre a un ”pacchetto” da trasportare in metropolitana, da mettere nel baule di un’auto e da riporre in un angolo dell’ufficio o di un ristorante o di un cinema. Ci sono circa 200 aziende nel mondo che le producono, per un giro di appassionati, di gente convinta della loro utilità e delle effettive potenzialità di utilizzo; ma non si può dire che ci sia già un vero mercato.
Ci sono però, accanto a tanti modelli più o meno simili, anche proposte molto innovative, che cercano di sfondare la barriera di diffidenza e di perplessità che ancora avvolgono questa soluzione per il futuro della mobilità urbana. È il caso del progetto Bike Intermodal, finanziato dalla Commissione Europea nel contesto del Settimo Programma Quadro (7PQ) e frutto della collaborazione di un gruppo di partner capitanati dalla start-up fiorentina Tecnologie Urbane, uno studio di progettazione che si occupa di design urbano e che ha immaginato un prototipo originale, su basi decisamente nuove rispetto a quanto si era visto finora.
Con Alessandro Belli, ideatore del progetto, abbiamo cercato di cogliere quali siano gli elementi veramente innovativi di Bike Intermodal. «La differenza principale rispetto ai tanti modelli in circolazione è fondamentalmente di natura industriale. In realtà per capire le innovazioni tecnologiche bisogna capire l’industria, così come si è evoluta nell’ultimo secolo, bisogna capire i processi produttivi. Nel caso della bicicletta, la filiera industriale parte da una miriade di produttori, prevalentemente piccoli, dei vari componenti che sono tutti standardizzati e compatibili. Da lì poi si arriva, attraverso i canali import-export, ai relativamente pochi assemblatori che nei vari mercati realizzano i modelli adatti. Ma questi non possono essere definiti produttori di biciclette: sono, appunto, degli assemblatori. Ci sono sì alcuni artigiani industriali di lusso, che producono modelli anche progettati ad hoc; ma costituisco una piccolissima percentuale del mercato mondiale». Tutte le biciclette pieghevoli in commercio sono quindi realizzate allo stesso modo, prendendo i telai pieghevoli e montandoci sopra tutti i componenti esistenti. «Si potrebbe quasi dire che sono un sottoprodotto dell’industria ciclistica. Ma in tal modo non è possibile realizzare nulla di realmente innovativo». Se guardiamo i modelli che escono sul mercato, troviamo biciclette che pesano mediamente dai 12 ai 16 kg e occupano volumi che vanno dai 120 ai 220 litri, (ad eccezione della Brompton che ne occupa 90): sono quindi grandi e pesanti, perché costruite con componenti che non permettono altro.
«Noi – dice Belli – abbiamo seguito un approccio del tutto diverso. Ci ponevamo il problema della bicicletta tender per l’auto (cosa che interessa molto le case automobilistiche) e abbiamo deciso di ripensare l’intero processo produttivo, partendo dal principio di non utilizzare nulla di ciò che è già disponibile nella filiera dell’industria ciclistica bensì riprogettando tutto da zero».
Il programma della Bike Intermodal aveva alcuni capisaldi. Il primo riguardava l’ergonomia. Come dev’essere, da questo punto di vista, una bicicletta? «Interrogando gli esperti e i guru della bicicletta, abbiamo cercato di capire come doveva essere un veicolo che avesse la stessa stabilità delle biciclette che conosciamo ma, ad esempio, avesse le ruote più piccole e occupasse un volume di 30 litri, con uno dei lati molto stretto, tra i 12 e 15 cm. Le prime risposte non sono state molto soddisfacenti, anche perché sulla dinamica della bicicletta non c’è stata molta ricerca nelle università e nei centri di tecnologia: le biciclette ci sono e funzionano e poco importa se non si sa bene il perché».
Belli e il suo team hanno coinvolto il Dipartimento di Meccanica dell’Università di Firenze, che da tempo si occupa di ergonomia. Poi si sono messi in contatto con l’università di Delft (Olanda) dove c’è un centro che studia tutte le problematiche dei veicoli a due ruote; lì c’è anche una linea di ricerca teorica, che parte da una complessa equazione della dinamica della bicicletta scritta nel 1899, cioè 14 anni dopo la nascita della bicicletta moderna, ma che resta a tutt’oggi complessivamente irrisolta, soprattutto per quanto riguarda le sensazioni del ciclista: è risolta solo per quanto riguarda la autostabilità del veicolo.
«Sulla base di tutti i diversi suggerimenti e idee, abbiamo iniziato a ripensare a tutti i componenti: ne è risultato un modello del peso 7,5 kg che, ripiegato, si presenta come un pacco piuttosto piatto (40x50x15 cm) quindi molto maneggevole e facilmente riponi bile». Peso e dimensioni sono stati ottimizzati grazie a studi sul campo ideati dall’Università di Firenze e realizzati dai partner ATAF e LPP, aziende di trasporti pubblici nelle città di Firenze e Ljubljana (Slovenia); tali studi, basati su questionari e test con modelli pieghevoli competitivi e condotti su un campione di lavoratori, pendolari giornalieri a vario titolo e studenti, hanno contribuito a comprendere quali fossero gli elementi necessari per massimizzare la facilità di utilizzo del prototipo.
Per la parte industriale vera e propria, gli autori di Bike Intermodal hanno collaborato con realtà come Trilix, un’azienda automobilistica di design ed engineering; Ticona, produttore di polimeri per il settore automobilistico, elettrico ed elettronico; e con Maxon Motors, produttore di sistemi e micro unità ad alta precisione, che ha progettato ad hoc un motore che può essere applicato alla bike potenziando la mobilità senza aggiungere pesi eccessivi. «Ci siamo mossi nella direzione di eliminare il più possibile ciò che non era necessario. Riprogettando tutto ex novo, non è stato difficile studiare alcune parti in modo da accorpare varie funzioni in meno componenti, alleggerendo e diminuendo la complessità del sistema; e migliorando anche l’effetto estetico, che dalle semplificazioni guadagna sempre».
Al centro della ”bicicletta intermodale” vi è un telaio pretensionato che si apre e si chiude come il carrello di atterraggio di un aereo, realizzato in alluminio pressofuso o magnesio e cavi nautici. La start-up sta anche valutando la possibilità futura di utilizzare grafene per rinsaldare e alleggerire ulteriormente la struttura.
Un’altra linea produttiva che hanno seguito, ha preso spunto dall’industria automobilistica, dove c’è la produzione automatica: «la nostra bici è realizzata con sub-assemblaggi e può essere tutta montata da robot».
C’è anche un’innovazione a livello potremmo dire commerciale, che deriva dal fatto che il package, come si è visto, è piuttosto piccolo: «ciò consente soluzioni di spedizione e consegna più flessibili e adattabili: pensiamo alle nuove soluzioni di logistica dei lockers, cioè degli armadietti analoghi alle cassette di sicurezza collocati dagli spedizionieri in vari punti delle città superando così lo scoglio delle consegne a domicilio quando non si trova in casa il destinatario».
Resta il tema dei costi, che è un po’ prematuro non trattandosi ancora di un prodotto commerciale; Belli però aveva già dichiarato che «quando il prototipo sarà ultimato e ottimizzato, la bicicletta costerà 800 euro, nella versione senza motore e 1.300 euro per il modello con motore; il costo del modello base, con la versione a scatto fisso, potrebbe scendere a 500 euro».
Nel frattempo la Bike Intermodal sta collezionando premi: dalla Marzotto Start-Up competition, al Philip Morris Science & Technology Prize Italy, al XXI Compasso d’Oro.