Il ricordo di un ”maestro” può essere occasione preziosa per una riflessione su una disciplina e sul suo insegnamento. E’ quanto ci si aspetta dal Workshop “Riflessioni sulla chimica. In ricordo di Giuseppe Del Re”, in programma il 10 e 11 settembre presso Softel, Centro Congressi dell’Università di Napoli, promosso dalla Società Chimica Italiana, dalla Scuola Normale Superiore di Pisa, dall’Iccom-Cnr di Pisa. Abbiamo chiesto a Giovanni Villani, chimico dell’Iccom-Cnr di Pisa, allievo di Del Re e coordinatore dell’evento, di approfondire i principali temi del denso programma.



L’interesse per gli aspetti storico-epistemologici e per il substrato culturale di una disciplina come la chimica è da considerarsi un’aggiunta “per appassionati” o può avere un ruolo importante nello sviluppo della ricerca e per l’insegnamento della disciplina?

Lo studio degli aspetti storico-epistemologici e, più in generale, il substrato culturale di una disciplina scientifica, e della chimica in particolare, non rappresentano un “divertimento” aggiuntivo alla ricerca scientifica, un “di più” che si può anche evitare. Quello che ci ha insegnato Giuseppe Del Re è, infatti, che un buon ricercatore non può esimersi dall’inquadrare le sue ricerche specifiche, che nella scienza moderna non possono non essere sempre più specifiche, all’interno di una cornice che ne determini le motivazioni e ne definisca il significato generale. Quando manca questa cornice che ci permette di connettere i tanti aspetti specifici di una disciplina, viene a mancare anche il dialogo tra gli specialisti e la ricerca si richiude sempre più in “tecnicismi”. Solamente chi riesce ad abbinare la specifica ricerca e “a volare alto” nei possibili collegamenti, passa da ”ricercatore” a ”scienziato”. Io credo, infatti, che dovremmo evitare di attribuire una bandiera così gloriosa a ogni ”super tecnico” della ricerca. Io credo che Giuseppe Del Re con il suo procedere, tenendo insieme questi due aspetti, meriti una dizione così impegnativa. Per fare un esempio in ambito differente, si diventa ”artista” quando si inquadrano i propri ”strumenti tecnici” in un ambito culturale generale. Se un pittore non travalica i ”virtuosismi” della tecnica pittorica non sarà mai un artista. Allo stesso modo, se in ambito scientifico ci sono solo “tecnici”, se non si riesce a creare ”cultura”, a creare collegamenti generali, si relega la disciplina scientifica in un ambito angusto, utile solo agli “specialisti” del settore. Non è poi da trascurare l’importanza che il substrato culturale di una disciplina può esplicitare sia in ambito didattico sia nel rapporto con ”l’esterno”, sia essa la società civile oppure la politica o altro.



Lei nota un aumento di interesse per la storia della chimica (e delle scienze in genere) al giorno d’oggi?

Fino a non molto tempo fa (e in tanti ambiti ancora oggi), era predominante l’idea che ”la scienza non ha storia”. Con questa frase non si intendeva dire, ovviamente, che le scoperte scientifiche non erano avvenute in un momento storico specifico ad opera di un particolare scienziato, ma che per la scienza questo non aveva importanza. Per capire questa posizione, che oggi ci appare ”bizzarra”, bisogna rifarsi alla differenza che c’è tra ”scoperta” e ”invenzione”. L’idea era (e, lo ripetiamo, per tanti è questa ancora oggi) che la scienza ”scopre” una verità oggettiva, esterna ad essa. In quest’ottica sapere chi ha compiuto questo passo e quando, può avere al massimo un valore esterno alla scienza (per esempio, per i cambiamenti che tale scoperta, una volta applicata, ha portato al mondo quotidiano). All’interno della scienza non ci dice niente di nuovo su come procedere, su cosa ”ricercare”. Molto bella è l’immagine del velo di Maya sulla realtà e dalla scienza che ”squarcia” tale velo. Se, invece, la scienza viene vista come un’attività umana che ”inventa” una risposta a un problema teorico o pratico, la storia della scienza assume un altro significato. Diventa in questo caso importante individuare il momento storico in cui si posiziona quella scoperta per capirla realmente. Diventa essenziale posizionare, con tutte le sue interrelazioni, sia lo scienziato che “inventa” quella risposta al problema sia la comunità scientifica che vidima tale scoperta. 



 

C’è differenza in questo tra la situazione italiana e altri contesti mondiali?

Le posso dire due cose, in parte opposte. Da un lato si ritrova senz’altro maggior interesse per l’aspetto storico della scienza all’estero, ma raramente questo aspetto riesce a diventare qualcosa di costruttivo per la scienza anche in quei contesti. Molto spesso la storia della disciplina diventa un’altra branca specifica, quando non si abbassa a ”cronistoria”. L’uso poi della storia della scienza in didattica ha, o dovrebbe avere, grandi potenzialità. In realtà, il più delle volte, è una storia ”aneddotica” o poco più. Giuseppe Del Re ha sempre attribuito grande importanza alla storia della chimica, ma a una storia concettuale, a una storia legata all’epistemologia, ai fondamenti, di tale disciplina. Io lo ricordo all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso impegnato attivamente nella creazione del Gruppo di Storia e Fondamenti della Chimica. Un’altra sua felice intuizione, ma che oggi fatica a tenere insieme “storia e fondamenti”. 

 

È appena stata varata una (parziale) riforma della scuola italiana: quali sono le urgenze relative all’insegnamento della chimica e quale è l’eredità di Del Re in proposito?

Del Re, soprattutto nella parte finale della sua vita, si occupò molto e attivamente di problemi di tipo didattico, principalmente dell’insegnamento della chimica nelle Scuole Superiori. La riforma approvata dal parlamento al momento è poco più che una scatola, una cornice da riempire (come è, del resto, qualunque legge delega) e il governo si è dato un anno di tempo per farlo. Io credo che la Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana (DD-SCI), debba (come sta già facendo) lavorare per attuare le potenzialità di miglioramento della didattica della Chimica che ci sono nella riforma. L’urgenza principale nell’insegnamento della chimica è la  ”formazione insegnanti” per la quale nella legge delega ci sono diversi spazi di manovra. Innanzitutto il DDL cambia radicalmente, e ritengo in maniera positiva, il sistema di formazione e reclutamento dei futuri insegnanti. Fino ad ora, infatti, il sistema prevedeva innanzitutto una procedura di abilitazione (in passato la SSIS, ora il TFA) e poi il concorso di assunzione. Oggi è prevista un’inversione, prima il concorso, poi un anno di corso di specializzazione, un anno nel corso del quale si acquisiscono nuove competenze, ma un anno nel quale è già prevista una retribuzione.

Quale può essere il ruolo delle associazioni disciplinari?

Nello specifico, io credo sia importante che la DD-SCI lavori in sinergia con le altre associazioni disciplinari, principalmente sul “riordino delle classi disciplinari di afferenza dei docenti e delle classi di laurea magistrale, in modo da assicurarne la coerenza ai fini dei concorsi”. Sono molte le questioni delicate su questo argomento da condividere, a cominciare da quale possa essere il numero di discipline da insegnare in maniera efficace in ciascuna classe di concorso. Sarà soprattutto su questo che bisognerà vigilare in vista dei decreti attuativi. Certamente se oggi ci fosse stato ancora Giuseppe, avremmo avuto un punto di riferimento, un’ancora a cui legarci per rimanere a galla nelle condizioni migliori. Purtroppo, dovremo fare da soli, cercando di non dimenticare mai i suoi insegnamenti: da una lato sono i docenti universitari ad avere la responsabilità della formazione degli insegnanti, ma, dall’altro, nessun ricercatore può sentirsi completo se non si occupa anche un po’ di diffondere in maniera rigorosa, ma accessibile, i risultati della sua ricerca.

 

Circa il rapporto tra ricerca di base e applicata, il caso della chimica è forse un po’ particolare: lei come vede la situazione italiana in proposito?

La situazione italiana è particolarmente difficile in questo caso. Nei decenni addietro sono state fatte delle scelte che hanno portato alla scomparsa della grande industria chimica italiana, solo parzialmente compensata dalla nascita e dal successo di alcune imprese medie/piccole. In questo panorama senza industria chimica di grandi dimensioni diventa difficile fare della buona ricerca applicata. Inoltre, si sono ridotti i finanziamenti degli stati, e dell’Italia in particolare, alla ricerca libera di base in tutti i settori, ma è ben noto che lo sviluppo delle conoscenze (che oggi non possono ancora essere applicate) rappresenta il substrato dal quale poi sviluppare ogni altra attività, anche quella principalmente applicativa. Oggi, quindi, fare calcoli di ”redditività” sulla ricerca in base, più che miope, è stupido. C’è poi bisogno di una decisa e diffusa ricerca chimica applicata per far si che le imprese innovino. Nel caso italiano, dove come detto le imprese chimiche rimaste operative sono medie/piccole, non è facile trovare i fondi necessari alla ricerca, ma non c’è alternativa. L’idea di ”comprare” i brevetti all’estero, che qualche volta si è sentito anche in ambito industriale, è un’idea non praticabile. Senza una ricerca in loco svanisce, infatti, in breve tempo anche la capacità di “capire e rendere operativi” i nuovi brevetti.

 

La chimica sta facendo molto per recuperare una buona immagine presso l’opinione pubblica: ritiene che stia cambiando davvero qualcosa e cosa bisognerebbe fare in più?

Due sono i fattori che incidono maggiormente sull’immagine pubblica della chimica. Da un lato, la crisi generale dell’immagine della Scienza. Oggigiorno, accanto alla disinformazione, che è una delle ragioni principali del declino d’immagine della scienza, non si devono trascurare anche altre cause, come l’identificazione, più o meno conscia, dell’asservimento dell’uomo alle macchine con la scienza-tecnica che queste macchine ha prodotto. Sull’immagine pubblica della chimica, vi sono da aggiungere specifici fattori negativi, legati al degrado ambientale e collegati alla nostra disciplina, al punto che la parola stessa ‘chimica’ è diventata indice di pericolo e di danno. A contribuire alla costruzione dell’immagine negativa della chimica hanno influito, infatti, alcuni disastri ambientali causati da incidenti a impianti chimici. Il più terribile è stato quello di Bhopal, in India, nel 1984 che provocò migliaia di morti. In Italia Seveso, nel 1976, rappresentò l’apice del terrore legato all’intossicazione da sostanze chimiche. Oltre a dedicarsi alla comunicazione, io ritengo che un altro rimedio per l’immagine della chimica può essere quello di impostare un nuovo modello didattico per l’apprendimento delle scienze, e, ovviamente, della chimica. Connetterla alla letteratura, alla pittura, alla cultura in generale, ma anche coinvolgere gli studenti attivamente nei laboratori, facendo sporcare loro le mani, possono essere alcuni rimedi. La chimica è una delle discipline più difficili per gli studenti, affossarla ancora di più rendendola anche poco attraente, noiosa e connotandola negativamente può essere un’operazione con costi altissimi anche in termini di ricerca futura.