Marco Bersanelli è abituato a scandagliare il cosmo sulle grandi distanze e sui tempi lunghi: col satellite Planck, del quale è uno dei massimi responsabili, ha ottenuto la mappa dell’universo bambino, 300mila anni dopo il big bang. Ma la notizia diffusa ieri dalla Nasa desta subito il suo interesse, anche se riguarda qualcosa di molto più vicino nello spazio e nel tempo. È a 1400 anni luce da noi, all’interno della nostra galassia, la Via Lattea, che si trova il nuovo esopianeta scoperto dal telescopio spaziale Kepler e per questo battezzato Kepler 452b: la sua particolarità è di essere molto simile alla Terra, sia come dimensioni che, soprattutto, come posizione rispetto al suo Sole. Vale la pena approfondire i motivi di tanto interesse.
Professor Bersanelli, iniziamo dalla missione Kepler, che non è nuova a scoperte di questo tipo: qual è la sua originalità?
In verità Kepler è una missione piuttosto noiosa, ma di grande successo: in pratica non fa che guardare ininterrottamente per molti anni la stessa zona di cielo, una regione della nostra galassia nella costellazione del Cigno, scelta opportunamente per l’abbondanza di stelle non troppo lontane. Nel suo paziente lavoro Kepler va a sbirciare nello spazio cercando quei segnali che indicano il possibile passaggio di pianeti davanti a quelle stelle.
Come fa a riconoscere i pianeti?
Lo fa attraverso il metodo detto del “transito”: è una sorta di mini-eclissi che il potenziale pianeta genera se la sua orbita è allineata con la linea di vista della stella. Nel momento in cui il pianeta passa davanti alla stella la luminosità di questa diminuisce leggermente: se noi andiamo a leggere i segnali di questa pur lieve diminuzione periodica, identifichiamo la presenza del pianeta. Con questo metodo Kepler, lanciato nel 2009, ha già scoperto più di 4000 candidati al titolo di esopianeta.
Una volta individuato un pianeta, si tratta poi di scoprirne le caratteristiche: come si fa?
Anzitutto, l’osservazione del transito ci permette di misurarne la durata e di avere informazioni sul sistema gravitazionale stella-pianeta. Dall’entità della diminuzione di luminosità durante il transito possiamo avere un’idea delle dimensioni del pianeta; ciò naturalmente richiede di conoscere già le dimensioni della stella. Ma per questo siamo diventati bravi da molto tempo: i diametri delle stelle infatti li possiamo dedurre dal tipo di stella, più precisamente dal cosiddetto tipo spettrale che riusciamo a ricavare da altri elementi. Talvolta si riescono a fare anche misure astrometriche, cioè del piccolo spostamento che la stella stessa subisce per effetto della perturbazione gravitazionale indotta dal pianeta; in tal caso riusciamo a misurare la massa del pianeta. Ecco allora che, avendo la dimensione, la massa e le caratteristiche orbitali possiamo già tracciare un primo identikit del pianeta e vedere se è candidato ad essere un pianeta abitabile.
Qual è allora la novità di Kepler 452b?
È in un insieme di fattori. Intanto la sua stella è molto simile al nostro Sole e la sua distanza dalla stella è quella ottimale. Infatti non qualsiasi stella si presta a formare un sistema con un pianeta simile alla Terra. Il nostro Sole ha tutte le caratteristiche per essere una buona stella: come stabilità, durata della vita e luminosità. Ad esempio, se una stella è troppo luminosa, la cosiddetta “zona di abitabilità” per un pianeta che le orbita attorno sarà più lontana; viceversa, se è poco luminosa il pianeta deve orbitare più vicino, per avere condizioni di temperatura adeguate. In entrambi i casi ci sono degli svantaggi: le stelle molto luminose sono come dei fuochi di paglia, durano poco; ma sappiamo che la vita per svilupparsi, almeno sulla Terra, ha impiegato quasi quattro miliardi di anni. D’altra parte, le stelle poco luminose implicano zone di abitabilità molto vicine; ma così sorgono problemi “mareali”, cioè di difficile sincronizzazione della rotazione del pianeta: avremmo dei pianeti che rivolgono sempre la stessa faccia alla stella, il che è evidentemente uno svantaggio.
Quindi su Kepler 452b la vita è possibile; o dobbiamo ancora dire “potrebbe”?
Assolutamente, si deve dire potrebbe. E ciò vale anche nell’altro senso. Mi spiego. Guardiamo la nostra Terra: le caratteristiche che la rendono abitabile non sono riducibili solo alla sua massa e alla sua distanza dal Sole e neppure al fatto che il Sole sia proprio così. C’è molto altro. Ad esempio il campo magnetico; che per la Terra è anomalo rispetto a quello degli altri pianeti rocciosi del Sistema Solare ma che è difficile valutare sugli esopianeti; e che peraltro è provvidenziale per schermarci dalla pioggia di raggi cosmici che ci bombardano e minacciano i sistemi viventi. Poi noi abbiamo la Luna: la presenza di un satellite naturale così grande è fondamentale per stabilizzare l’inclinazione dell’asse terrestre e di conseguenza per assicurare le giuste condizioni climatiche lungo i millenni. Insomma, sono tanti gli elementi che fanno della Terra quello che è.
Lei consiglia di trattenere l’euforia…
La notizia della scoperta di Kepler 452b è importantissima; ma quello che la Nasa ha comunicato ieri è soltanto un indizio di una possibile somiglianza con la Terra. Ritengo inoltre che non dobbiamo pensare di trovare altre forme di vita solo su pianeti uguali alla Terra: dobbiamo allargare le possibilità anche nell’altro senso.
Cosa c’è ancora da capire di questo nuovo pianeta o di pianeti simili?
Sarà importante studiare le perturbazioni gravitazionali prodotte dal pianeta attorno alla sua stella per poter avere, come accennavo prima, un’idea della massa del pianeta. Decisiva poi, per lo studio degli esopianeti, sarà Plato, una missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) recentemente approvata per essere lanciata nel 2024, che continuerà e approfondirà la statistica che sta facendo Kepler, andando soprattutto a ottimizzare la capacità di rintracciare pianeti di dimensioni “terrestri”, quindi simili a quello appena scoperto.
Qual è secondo lei il valore di questo tipo di ricerche? Perché gli uomini hanno questo desiderio di trovare la vita extraterrestre?
Penso che sia perché ultimamente la ricerca per l’uomo è sempre la ricerca di se stesso, della propria origine e del proprio posto nell’universo. Andare a cercare la vita altrove è come cercare se stessi altrove. L’eventualità di trovare forme di vita in grado di comunicare con noi, in fondo tradisce la radice della curiosità scientifica e rivela la fonte della domanda del ricercatore: ultimamente la domanda è chi sono io. Anche la ricerca della possibilità vita su altri mondi è un modo diverso di andarsi a specchiare nella realtà cercando un incontro: un incontro con qualcosa che è altro da noi ma che ci può dire qualcosa su chi siamo noi, sulla nostra origine.
(Mario Gargantini)