Lo aveva preannunciato qualche mese fa in un’intervista a ilsussidiario.net in occasione della inaugurazione del Nanomib, il Centro interdipartimentale di Nanomedicina avviato presso l’Università di Milano-Bicocca: allora Massimo Masserini – ordinario di Biochimica all’ateneo milanese e direttore del Nanomib – parlando delle particelle da poco scoperte e in grado di rimuovere la placca che induce l’Alzheimer, aveva indicato la possibilità di costituire uno spin-off per passare dalla sperimentazione sugli animali a quella sull’uomo: «Il passaggio dall’animale all’uomo non è così semplice. Ci sono anche esempi recenti di clinical trial che suscitavano grandi promesse e poi nel passaggio sull’uomo o non hanno funzionato o hanno provocato effetti collaterali inaccettabili. Nel nostro caso dobbiamo affrontare la fase preliminare della certificazione per attestare la stabilità, la possibilità di produzione su grande scala e così via; ma è una fase molto costosa, si parla di qualche milione di euro. Quando poi si passerà all’uomo ci vorranno altri dieci milioni di euro. L’unico modo per sviluppare tutto questo è creare uno spin-off e cercare dei finanziamenti; ed è quello che stiamo facendo».



Adesso ci sono riusciti e l’avvio dello spin-off è appena stato annunciato: si chiama AmypoPharma ed è nato con l’obiettivo di sviluppare un farmaco anti-Alzheimer basato sugli Amyposomes, le nanoparticelle, realizzate dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, che nel modello animale hanno ripristinato la memoria e rimosso dal cervello le placche della proteina – nota come ß-Amiloide – che si formano nella malattia di Alzheimer. Per raggiungere tale obiettivo il nuovo spin-off si è dato delle scadenze precise: un anno per ottenere l’autorizzazione del ministero della Salute e tre anni per avviare e concludere le due fasi di sperimentazione clinica sull’uomo.



Tutto è partito dalla messa a punto di speciali particelle in grado di entrare nel cervello e rimuovere le placche della ß-Amiloide: le hanno chiamate Amyposomes e sono state letteralmente costruite (o meglio, ingegnerizzate) e brevettate dai ricercatori della Bicocca. Per il momento sono state testate con successo nel modello animale e la riduzione delle placche è stata confermata dalla PET (tomografia a emissione di positroni), alla quale sono stati sottoposti i topi trattati con le nanoparticelle. I risultati di questa ricerca – che è la parte conclusiva del progetto Europeo NAD (Nanoparticles for therapy and diagnosis of Alzheimer Disease) del quale Masserini è coordinatore – erano stati pubblicati all’inizio di quest’anno su “The Journal of Neuroscience” ed erano frutto di una collaborazione tra l’Università Bicocca e l’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’ di Milano.



Ma come funzionano queste nanoparticelle? Il loro bersaglio terapeutico è appunto la proteina ß-Amiloide: nel modello animale le nanoparticelle dopo tre settimane di trattamento, non solo hanno rimosso le placche di ß-Amiloide dall’encefalo, ma hanno anche favorito lo smaltimento dei frammenti della proteina tossica attraverso il circolo, da parte del fegato e della milza. L’eliminazione dei depositi di ß-Amiloide a livello cerebrale è stata associata a un recupero delle funzioni cognitive misurato con uno specifico test di riconoscimento degli oggetti.

«La terapia – ha spiegato Masserini – è basata su una strategia, impossibile da realizzare con un farmaco convenzionale, che utilizza uno strumento nanotecnologico, cioè particelle di dimensioni di un miliardesimo di metro. Nella ricerca pubblicata su “The Journal of Neuroscience” il trattamento è riuscito a frenare la progressione della malattia, ma stiamo anche valutando, per ora sempre sul modello animale, la possibilità di prevenirne l’insorgenza, intervenendo quando le capacità cognitive e la memoria sono solo minimamente compromesse. Se in futuro questi risultati saranno verificati nell’uomo, il trattamento, abbinato ad una diagnosi precoce permetterebbe ai malati di Alzheimer di condurre una vita pressoché normale».

Il primo importante passo in questa direzione è la nascita di AmypoPharma. Per riuscire nell’impresa i ricercatori hanno trovato il supporto della società svizzera Breslin AG, specializzata nella ricerca di fondi da investire in progetti nei campi biotech e salute. I fondi necessari a ottenere la certificazione IND (Investigational New Drug) per il prodotto Amyposomes e condurre a termine la sperimentazione clinica sono stimati in circa 14 milioni di euro che i ricercatori del team AmypoPharma contano di trovare anche tra gli investitori italiani. Le azioni della start-up sono detenute al 71% dai docenti e ricercatori di Milano-Bicocca che hanno sviluppato il brevetto e al 19,5% da Breslin; l’Ateneo partecipa con una quota del 5%. Il Ceo è Francesca Re, giovane ricercatrice di biochimica in Bicocca.

«Al momento – aggiunge Masserini – non esistono farmaci competitor nella cura dell’Alzheimer. Purtroppo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità confermano che a livello mondiale le persone che ne sono colpite sono in aumento, addirittura destinate a raddoppiare rispetto ai 30 milioni attuali entro il 2040. Il nostro progetto, se la sperimentazione clinica, come speriamo, darà risultati positivi può essere un esempio della capacità della ricerca di confrontarsi col mercato generando prodotti e fatturato».

Date le loro caratteristiche e la capacità di superare senza modificazioni la barriera tra sangue e cervello, oltre che contro l’Alzheimer gli Amyposomes potrebbero essere utilizzati anche nella cura di altre malattie neurodegenerative.