Alcuni quotidiani e siti web nazionali e internazionali nei giorni scorsi hanno rilanciato il risultato scientifico ottenuto dalla Tri-Alpha Energy Inc. (TAE) che ha annunciato un importante incremento di prestazioni del dispositivo per lo studio della fusione termonucleare che sta sviluppando. Giornalisticamente (ma non solo) la storia è ghiotta: una piccola start-up californiana, interamente supportata da investimenti privati, priva di sito web (curiosamente questo spinge alcuni a definirla “segreta”) sembra battere in velocità vasti consorzi “ufficiali” di ricerca con dotazioni multimiliardarie ottenendo la pole-position nella corsa verso quella che potrebbe essere tout court la soluzione del problema energetico mondiale e un enorme contributo a quello ecologico.
Con questo materiale a disposizione si può agevolmente cucire una storiella avvincente, ottima per alimentare le chiacchierate con i vicini di ombrellone.
La fusione termonucleare è il processo che alimenta le stelle: nuclei leggeri, come l’idrogeno, portati ad altissima temperatura e densità (uno stato della materia chiamato plasma) si fondono in nuclei più pesanti rilasciando una grande quantità di energia. La via maestra per produrre la fusione in modo industrialmente utile è costituita dal progetto di reattore sperimentale ITER in costruzione da un vasto consorzio internazionale che vede l’impegno delle maggiori istituzioni di ricerca sulla Fusione dei paesi industrializzati. ITER rappresenta il vertice di una famiglia di dispositivi (detti tokamak) nei quali il plasma viene confinato, cioè mantenuto a distanza da pareti ed altri oggetti materiali, principalmente (ma non solo) tramite un intenso campo magnetico di forma toroidale.
L’intensità del campo magnetico toroidale, pari a 5.3 Tesla (circa 100000 volte il campo magnetico terrestre) unitamente al considerevole volume necessario (circa 830 metri cubi) per garantire un numero sufficiente di reazioni nucleari per secondo (7·10 alla 19) e un tempo sufficiente (circa 1 secondo) durante il quale l’energia prodotta venga trattenuta nel reattore, costituiscono importanti ostacoli tecnologici alla realizzazione di ITER e anche i suoi maggiori fattori di costo.
Alle difficoltà tecniche di ITER si aggiungono quelle di carattere gestionale, collegate oltre che alla complessità del progetto ingegneristico anche alla natura cooperativa dell’impresa: i partner internazionali contribuiscono fornendo parti della macchina e condividono la proprietà del know-how, base per la progettazione di reattori di interesse industriale. Un esperimento sociale e diplomatico oltre che scientifico, il cui avvio non è stato privo né di errori né di lungaggini.
È in questo contesto che occorre leggere il recente fatto di cronaca. Il dispositivo messo a punto da TAE, chiamato C-2, appartiene alla famiglia di confinatori magnetici nota agli esperti come Field-Reversed Condiguration (FRC). Spiegarne il nome e perciò le caratteristiche fisiche richiederebbe qui troppo spazio: può bastare sapere che in un FRC viene formata transitoriamente una configurazione magnetica toroidale chiusa senza che sia necessario un campo magnetico toroidale imposto dall’esterno.
L’intero dispositivo C-2 ha all’incirca la forma di un cilindro, il suo campo magnetico è assiale e molto meno intenso di quello necessario in un tokamak. La configurazione FRC è nota da tempo: ciò che gli scienziati di TAE hanno realizzato sono alcune varianti che favoriscono il perdurare della configurazione transitoria. La prima consiste nel fatto che ai due capi del cilindro vengono realizzate due differenti configurazioni chiuse di plasma (due anelli) che vengono poi “sparate” l’una contro l’altra a velocità supersonica. La loro collisione innesca la formazione della FRC e la nascita di un campo magnetico spontaneo che ne accresce la stabilità. Il secondo ingrediente chiave è l’iniezioni di fasci di atomi di idrogeno ad alta velocità nella regione del cilindro in corrispondenza della FRC. Questi rinforzano il campo magnetico spontaneo oltre che apportare energia al plasma confinato nella FRC.
Questi due accorgimenti hanno prolungato la vita del plasma di un ordine di grandezza, da 0.3 a 5 millesimi di secondo. Un successo di indubbia rilevanza che ha spinto scienziati e dirigenti della TAE a pubblicare articoli su due riviste scientifiche dopo cinque anni di lavoro silenzioso, che va tuttavia collocato in una prospettiva adeguata. Il risultato ottenuto serve a qualificare la FRC come un oggetto di studio e di sviluppo potenzialmente interessante per la fusione termonucleare. Questo è avvenuto negli anni 60 per i tokamak e anche molto recentemente per altre configurazioni di confinamento magnetico del plasma.
Tuttavia, dimostrato che un principio è promettente, il percorso che lo porta alla fattibilità tecnica con il raggiungimento delle prestazioni adeguate per un reattore è lungo e se la storia insegna, non privo di imprevisti. C-2 confina il plasma per pochi millisecondi a temperature di 10 milioni di gradi. Per la fusione termonucleare occorrono tempi di confinamento 10-100 volte più lunghi, temperature e densità (contemporaneamente) 10 volte più elevate. ITER è progettato per colmare la distanza residua verso questo traguardo. Difficile che un’alternativa, per quanto brillante, possa superarla con un solo balzo.
Ancora due note a margine, la prima di carattere scientifico. Il nome Tri Alpha è legato allo scopo finale dell’impresa, che non è la fusione di una miscela di isotopi di Idrogeno (Deuterio e Trizio) che danno come prodotti di reazione un nucleo di Elio e un neutrone; è bensì la reazione Idrogeno e Boro che da come prodotti tre nuclei di Elio. Il vantaggio è l’eliminazione dei neutroni dai prodotti di reazione, il che abbassa drasticamente i problemi di radioprotezione del dispositivo. Lo svantaggio è una accresciuta difficoltà nell’innesco della reazione. Come si vede, un ottimismo senza mezze misure.
La seconda osservazione è che negli ultimi anni sono apparse svariate società start-up sostenute con capitali privati nel campo della fusione termonucleare, specialmente nel mondo anglosassone. Forse una conseguenza della focalizzazione degli sforzi verso pochissimi grandi progetti che è avvenuta nel mondo della ricerca pubblica, comunque segno di creatività scientifica in atto nel settore e anche di un coraggio imprenditoriale che dovrebbe far riflettere.