Ne avranno da discutere gli archeologi dopo l’annuncio dato durante il British Science Festival, del ritrovamento di un nuovo e più imponente insediamento del neolitico a pochi chilometri del celebre sito di Stonehenge. Si tratta di una serie di oltre 90 megaliti, disposti lungo un percorso ad arco e di dimensioni che in alcuni casi raggiungono i 4 metri. Risalgono a circa 4500 anni fa e sono stati individuati sotto terra, a partire da una profondità di circa un metro, nel corso di un programma di prospezioni archeologiche condotto dall’Università di Bradford e dal Ludwig Boltzmann Institute for Archaeological Prospection and Virtual Archaeology: quest’ultimo ne ha realizzato una ricostruzione in realtà virtuale che ha subito fatto il giro del mondo.



Mentre si riaccende il dibattito sulla funzione di quel tipo di costruzioni (rituale, celebrativa, astronomica…) e sulle modalità di trasporto e collocamento delle enormi pietre, è interessante capire un po’ meglio le caratteristiche e il funzionamento della particolare apparecchiatura utilizzata per arrivare alla scoperta. Gli studiosi che partecipano allo Stonehenge Hidden Landscapes Project, accanto agli strumenti della magnetometria, hanno impiegato una tecnologia nota come GPR (acronimo per ground penetrating radar) o più semplicemente Georadar. Abbiamo chiesto di illustrarlo al professor Luigi Zanzi, del Politecnico di Milano, responsabile del Laboratorio Misure di geofisica applicata.



Cos’è e come funziona un georadar?
Il georadar o GPR è uno strumento di indagine geofisica nato negli anni 60-70 del secolo scorso, quindi relativamente recente rispetto ad altre metodologie. Funziona in base a un principio ecografico, cioè registra le riflessioni o diffrazioni di un’onda prodotte da contrasti di materiali diversi, come accade nel sottosuolo oppure attraverso muri o altre strutture e manufatti.

Il principio quindi è analogo a quello dell’ecografia che tutti conosciamo, almeno per le sue applicazioni in diagnostica medica: la differenza è che lì si utilizzano onde di pressione, onde elastiche, mentre nel GPR utilizziamo onde radar, quindi onde elettromagnetiche che sono di natura molto diversa. Il principio però è lo stesso.



Che tipo di onde elettromagnetiche vengono utilizzate, a quali frequenze?
Le frequenze possono variare dai 10 MegaHertz, quando impieghiamo antenne di bassa frequenza, fino a qualche GigaHertz quando si ricorre ad antenne di alta frequenza. La diversa scelta del tipo di antenne dipende dalle performance richieste: con le basse frequenze si penetra più in profondità ma con minore risoluzione delle immagini, quindi non si vedono molti dettagli mentre con le alte frequenze accade il contrario cioè si ha una maggior risoluzione ma una minore possibilità di penetrazione.

Di che profondità parliamo?
Per dare un ordine di grandezza, con le basse frequenze e con materiali favorevoli si può arrivare a un centinaio di metri, mentre con qualche GigaHertz penetriamo anche solo mezzo metro: è il caso, ad esempio delle indagini non distruttive sugli edifici, dove interessano i piccoli dettagli e non la profondità.

 

Le apparecchiature per il GPR sono ingombranti o semplici?
L’ingombro è ancora una volta legato alla frequenza: le antenne di alta frequenza sono piccole, arriviamo anche ad oggetti delle dimensioni di 10-20 cm, che quindi stanno in una mano e che si possono agevolmente collocare in diverse posizioni. Quando si va sulle basse frequenze le dimensioni aumentano, fino ad arrivare ad antenne di diversi metri.

 

E nelle applicazioni per le indagini archeologiche?
Qui si sta sulle medie frequenze e quindi abbiamo apparecchiature di forma e dimensioni che potrebbero assomigliare, per dare un’idea, a un grosso aspirapolvere, dove l’antenna viene tenuta a contatto col terreno in modo da favorire al massimo la trasmissione dell’onda nel terreno mandando il meno possibile onde radar nell’aria per non avere interferenze con l’ambiente esterno e utilizzare al meglio tuta l’energia generata dalla batteria che alimenta l’apparecchiatura.

 

Quindi per l’archeologia sono uno strumento ideale?
È uno dei sistemi più utilizzati per l’indagine archeologica, accanto agli altri due metodi geofisici che sono quello magnetometrico e quello elettrico; ma sono del tutto complementari e il georadar è certo molto impiegato.

 

Come avviene la visualizzazione dei risultati: possiamo pensare a un display con un’immagine simile a quelle delle termografie?

In un certo senso. C’è però una importante differenza rispetto alla termografia: l’immagine termografica sostanzialmente è una fotografia, perché il segnale non penetra o penetra pochissimo nel materiale. Viceversa per il GPR, che quindi dà come risposta una sorta di filmato, una sequenza di fotogrammi: sono una serie di fotografie a profondità diverse, dal cui esame si possono ricostruire le geometrie tridimensionali degli oggetti esplorati. Si possono così riconoscere e distinguere i manufatti umani dalle conformazioni geologiche: ad esempio un muro costruito dai romani avrà una geometria con spigoli e lati lunghi e diritti mentre in certi terreni si potranno rintracciare radici di alberi o altri elementi naturali totalmente irregolari. Si comprende quindi come una simile visualizzazione di serie di fotografie a vari livelli sia ideale per le indagini archeologiche. In tutte quelle situazioni dove c’è un contrasto delle proprietà elettromagnetiche dei materiali il georadar raccoglie un’eco: quindi individua il contrasto tra un sedimento e una pietra ma anche quello tra terreno e una cavità, come una stanza o una conduttura.

 

Dipenderà molto anche dalla natura dei terreni…
Certo, la profondità e il riconoscimento degli oggetti dipende anche dai terreni: ci sono situazioni più favorevoli altre meno. In Inghilterra ci sono spesso situazioni favorevoli, che permettono buone penetrazioni, e quindi è abbastanza logico che nel sito di Durrington Walls si sia ottenuto questo risultato.