L’esigenza di avere a disposizione materiali in grado di autoripararsi è sempre più sentita via via che si estendono le applicazioni tecnologiche in nuovi contesti produttivi e della vita quotidiana. Ci sono molte situazioni dove i guasti nei materiali possono provocare danni rilevanti, alle persone e alle cose, e dove peraltro risulta difficoltoso se non impossibile intervenire sul posto per le eventuali riparazioni. Basti pensare a molte protesi mediche; ma anche a situazioni come quelle dei cavi in fibra ottica per telecomunicazioni posati nelle profondità oceaniche, dove la possibilità di riparazione di un cavo difettoso eviterebbe di doverlo sostituire, con evidente risparmio di tempo e denaro.
Per andare all’altro estremo della distanza da terra, si pensi agli astronauti che viaggiano e vivono in un ambiente inospitale, sottoposti al rischio di essere colpiti da oggetti che arrivano all’improvviso alla velocità di 30mila chilometri orari. È uno dei problemi che la Stazione Spaziale Internazionale ha affrontato da subito e in verità l’avamposto umano nello spazio è una delle costruzioni meglio protette, dotate di schermi protettivi che riescono a neutralizzare gli impatti cosmici. Tuttavia anche queste protezioni potrebbero cedere e avere dei difetti irreparabili e le conseguenze sulla vita degli abitanti della Stazione sarebbero tristemente immaginabili.
Si moltiplicano quindi i tentativi di realizzare materiali autoriparanti e qualche risultato sta arrivando. Qualche settimana fa sulla rivista ACS Macro Letters della American Chemical Society è apparso un studio di un gruppo del Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università del Michigan, che descriveva le caratteristiche di un nuovo tipo di materiale in grado di auto-ripararsi: era costituito da due strati di un polimero solido che racchiudevano, come in un sandwich, un liquido reattivo. Nei test eseguiti sul materiale, sparando un proiettile contro la superficie, si è verificata una rapida risposta del liquido che ha reagito rapidamente con l’ossigeno dall’aria formando una sorta di tappo protettivo solido in meno di un secondo.
I ricercatori non nascondono che la speranza che questa innovazione tecnologica possa trovare ampie applicazioni, non solo nei veicoli spaziali ma anche in strutture più “terrene”, prime fra tutte le automobili.
Un’altra notizia del genere arriva in questi giorni dalla Pennsylvania, dove un gruppo guidato da Melik Demirel, professore di ingegneria meccanica alla Penn State, ha messo a punto un nuovo materiale del tutto originale che riuscirebbe ad autoripararsi addirittura con l’apporto di una semplice goccia d’acqua.
Ma l’elemento ancor più curioso di questa invenzione, descritta in un articolo sui Scientific Reports di Nature, è il tipo di materiale utilizzato. Si tratta di polimero multifase derivato dal codice genetico dei denti di calamaro: Demirel e il suo team hanno esaminato le corone di denti di calamari raccolti in varfie parti del mondo – Mediterraneo, Atlantico, Argentina, Hawaii e Mar del Giappone – e hanno scoperto la presenza ovunque di proteine con proprietà di auto-riparazione.
Il problema però è la bassa resa di questo materiale proteico da fonti naturali: da 5 kg di calamari si ricava circa 1 grammo di questa proteina; e, naturalmente, nessuno pensa di incidere pesantemente sulle popolazioni di calamari minacciandone la sopravvivenza. Così, anche per avere un materiale più omogeneo e non dipendente dalle inevitabili differenza tra le famiglie di calamari, gli scienziati sono ricorsi alla biotecnologia per produrre la proteina tramite batteri. Il risultato è stato un polimero con le proprietà volute e che può essere stampato e modellato.
Sono passati poi alla realizzazione del materiale vero e proprio che è un copolimero con due componenti: uno è un segmento amorfo più morbido, l’altro ha un’architettura molecolare più strutturata; quest’ultima è costituita da filamenti di amminoacidi connessi da legami idrogeno per formare una striscia elicoidale o pieghettata. Questa parte è quella che dà al polimero la sua forza, ma è il segmento amorfo che rende possibile l’auto-riparazione.
I ricercatori hanno creato un campione del nuovo polimero a forma di osso per cani e l’hanno diviso in due parti: utilizzando acqua a circa 45 °C – leggermente più calda della temperatura corporea – e fornendo una leggera pressione con un attrezzo metallico, le due metà si sono riunite per riformare la forma iniziale. Le prove di resistenza hanno dimostrato che il materiale dopo la riparazione aveva la stessa robustezza di quello originario.
Adesso il sogno di Demirel e colleghi è di poter applicare questo stesso approccio ad altre applicazioni e in particolare alla guarigione di ferite o lesioni cutanee: ed è su questo che stanno concentrando i loro sforzi di ricerca.