L’invenzione della bottiglia di ketchup in PET, con dosatore e meccanismo di contenimento della parte più liquida, è uno degli esempi di design reattivo, o se si vuole di coinnovazione; cioè di processo di progettazione dove gli utenti finali vengono coinvolti nell’ideazione e dove gli ingegneri “imparano” dai consumatori dei loro prodotti. È solo uno dei numerosi esempi offerti da Guru Madhavan per illustrare il tipico approccio ingegneristico ai problemi, per cercare di identificare gli assi portanti della mentalità ingegneristica, insomma, per spiegare “come pensano gli ingegneri”; in un libro proprio con questo titolo (nell’edizione inglese: Applied Minds. How Engineers Think) da poco pubblicato da Raffaello Cortina.



I racconti e le riflessioni di Madhavan (bioingegnere che opera presso la National Academy of Science a Washington) sono ricche di indicazioni e suggerimenti che vanno oltre la sfera di interesse di chi vuol conoscere gli stili di pensiero ingegneristici e rappresentano un’occasione in più per ragionare sui temi della tecnologia e del suo impatto sulla nostra vita. Può essere stimolante per tutti sapere che molti ingegneri hanno successo anche in ambiti differenti e ciò dipende dall’aver sviluppato una “capacità rigorosa e sistematica di risolvere problemi”; ciò accade – secondo Jim Plummer, decano della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Stanford – perché “gli ingegneri sono integratori capaci di prelevare idee da più flussi di sapere e combinarle tra loro”. Operare come un ingegnere significa imparare a “guardare a un problema da più angolature diverse” e collocarsi a lavorare “al punto di intersezione tra il fattibile, il funzionante e l’auspicabile”.



Tre sono i tratti fondamentali individuati da Madhavan come distintivi dello stile di pensiero ingegneristico. Uno è la capacità di “vedere” strutture dove non ce ne sono ancora e quindi di cogliere in anticipo, nessi logici, cronologici e funzionali dei vari componenti del sistema che si sta progettando.

Un secondo tratto è la capacità di “progettare efficacemente in situazioni vincolate”. Qui emerge tutto il realismo che contraddistingue l’atteggiamento dell’ingegnere: i vincoli sono inevitabili e possono essere trasformati in opportunità per sprigionare tutte le risorse di ingegnosità e di creatività che portano alle innovazioni. Il vero creativo non è chi lancia a briglia sciolta la fantasia ipotizzando soluzioni mirabolanti ma impraticabili; è piuttosto chi “sa produrre i risultati migliori date determinate condizioni”.



Il terzo elemento caratteristico è riassumibile con il termine poco entusiasmante di compromesso ma che, a ben guardare, è il criterio che tutti pensiamo più giusto applicare di fronte a decisioni impegnative: si tratta di mettere su due piatti di una bilancia i costi e i benefici, le energie richieste e i vantaggi prevedibili di una determinata operazione.

Sintetizzando questi tre fattori in modo incisivo e suggestivo, l’autore arriva a dire: “Struttura, vincoli e bilanciamento sono le tre articolazioni di base del modo in cui pensano gli ingegneri e stanno all’ingegneria come il metro, il tempo e il ritmo stanno alla musica”.

Se questi sono i tre approcci con i quali l’ingegnere affronta i problemi, resta da capire come procede giorno dopo giorno l’attività che è segnata dall’obiettivo del miglioramento continuo dei prodotti e dall’ottimizzazione dei processi; un percorso che spesso porta alle innovazioni, alcune delle quali dirompenti. Qui il termine esplicativo è quello di ricombinazione: le innovazioni, grandi o piccole che siano, sono l’esito di procedimenti di ricombinazione, dove elementi diversi vengono connessi e riorganizzati secondo nuove modalità, dando vita a nuovi sistemi e nuove soluzioni. Il miglior esempio di questo è sotto gli occhi di tutti ed è Internet: “La Rete non è una cosa sola ma un conglomerato di cose che concorrono a formare un’unica entità. È una ricombinazione di inaudita complessità di microprocessori, unità di memoria, algoritmi e protocolli di comunicazione (l’elenco potrebbe continuare)”.

Con tutto ciò Madhavan è consapevole di non aver trovato la ricetta infallibile per generare tecnologia. C’è da mettere in conto un fattore che difficilmente trova posto nei corsi dei Politecnici ma che spesso risulta decisivo: “La buona riuscita o l’insuccesso di una tecnologia dipendono in misura determinante da variabili di tipo culturale”. Se da un lato è vero che sono le tecnologie, specie quelle più pervasive, a condizionare e a plasmare i nostri comportamenti quotidiani, fino a incidere sul comune modo di pensare, possiamo ancora ritenere che ciò non sia totalizzante e ineluttabile; c’è una irriducibilità di fondo nell’essere umano che gli dà la possibilità, se vuole, di governare lo sviluppo delle macchine; e lo strumento per esercitare tale governo non può essere a sua volta frutto di una macchina, deve avere un’altra origine. Di questo sembra accorgersi l’autore quando conclude: “Se vuole lavorare a servizio delle nostre società, l’ingegneria dovrà imparare a comprendere meglio le sottigliezze del comportamento umano. Dovrà allargare il proprio campo visivo arricchendosi del potenziale visionario, della saggezza e della creatività delle arti, dei saperi umanistici, delle scienze e della filosofia”.