Ospite ieri al Meeting di Rimini, nello speciale spazio “WHAT? – Whats Human About Technology?” organizzato da Associazione Euresis e Fondazione Ceur, Mario Morcellini, professore ordinario in Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Roma La  Sapienza, dove è prorettore alle comunicazioni istituzionali e direttore del Coris – Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale. Insieme a Marco Bersanelli, astrofisico dell’Università degli studi di Milano e a Teodoro Valente, prorettore alla Ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico sempre a La Sapienza, hanno dato vita a un vivace momento di dialogo, anche col coinvolgimento del pubblico, sulle sfide poste dall’impetuoso sviluppo tecnologico, con particolare riferimento alle tecnologie della comunicazione. Ilsussidiario.net l’ha incontrato.



Le nuove tecnologie si manifestano come un fenomeno che ci tocca tutti, ma è davvero così? Non si stanno forse creando nuove divisioni e nuove forme di discriminazione?
Diciamo che questa domanda sottolinea gli aspetti più critici ma più nascosti dell’euforia che c’è in giro sulla tecnologia, un’euforia da combattere a tutti i costi, e questo è il posto giusto in cui cominciare una campagna di verità. Non c’è solo il problema della divisione sociale, c’è anche e soprattutto quello della differenza generazionale; noi siamo storicamente abituati al fatto che la provenienza di classe determini una differenza nelle stanze di accesso, non eravamo abituati al fatto che fossero le differenze di età a costruire una diversa prospettiva antropologica, una diversa prospettiva di vita. Nell’ottica del digital divide emergono degli aspetti sconvolgenti. La tecnologia si presenta come fintamente universale e invece finisce troppo spesso per costituire comunità colte; inoltre sigilla le generazioni tra di loro invece che costruire universalismo.



Il confine fra reale e virtuale sembra farsi più tenue, soprattutto nella percezione che ne ha il soggetto. Siamo veramente in grado di dominare queste nuove esperienze e farle diventare fattore di incremento e non di disgregazione della propria identità culturale e ideale?
Anche in questo caso penso che sia fondamentale un principio di precauzione, ossia la capacità degli intellettuali, dell’associazionismo culturale, politico e valoriale di osservare questi cambiamenti, perché la precauzione implica l’idea che siamo di fronte a mutamenti che non si sono mai verificati nella storia ed eventuali vittime, i soggetti che non riescono a stare al passo, finirebbero per essere schiacciate. A livello europeo il concetto di principio di precauzione ci aiuta a dire che, quando c’è incertezza, le comunità devono fare un passo indietro rispetto alla prosopopea, all’euforia del cambiamento tecnologico. Bisogna che questo cambiamento venga studiato dal punto di vista dell’innovazione sociale, cioè quanta innovazione tecnologica regalata dalle imprese diventa davvero risorsa collettiva, cioè, per i sociologi, riguardante almeno il 50 per cento della popolazione.



Un altro paradosso, è tutto social, ma la gente è sempre più sola, come possiamo uscirne?

Diciamo che la fortuna di questo aggettivo, “social”, è inversamente proporzionale all’apertura della scoperta che gli altri sono la mia risorsa. Il fantastico luogo comune linguistico di quest’anno (il titolo del Meeting, ndr) allude a questo: tu puoi essere il mio bene, ed io aggiungo che questa citazione è importante perché apre al concetto di bene comune. Allora da un lato noi sappiamo che per molti versi i soggetti costruiscono la qualità delle loro interazioni con le tecnologie, quindi dobbiamo aprirci al fatto che c’è comunque un continente nuovo, quello regalato dalle nuove tecnologie, che si presenta come un’alba anche troppo promettente di felicità delle relazione e delle interazioni. Dall’altro vediamo solitudini sempre più mascherate dalla tecnologia, allora c’è anche qui un problema di contenuti. Dobbiamo aprirci all’idea che, come per la campagna sulla televisione in cui non ci accontentiamo della qualità attuale, anche sulle tecnologie bisogna aprire una disputa sui contenuti, non può essere solo gioco e divertimento. Devono diventare contenuti impegnativi, che ti cambiano, possibilmente per sempre; devono essere più artistici, più poetici, più collegati alla storia culturale italiana, all’identità, ai valori. Noi non accettiamo un’interpretazione della tecnologia che sia una secessione dal modello culturale italiano.

In Italia chi sta lavorando e come per un’educazione alle nuove tecnologie, sia di chi le produce che di chi ne fruisce?
Pochissimi, e tanto meno la politica, anche se qualche sforzo sulla scuola c’è stato. Diciamo che le università sono quelle che fanno di più, ma dovrebbero fare immensamente di più: non possono permettersi di fare solo laboratori, devono diventare un centro e un presidio di allargamento delle conoscenze sulle tecnologie, altrimenti lo stesso ruolo dell’università viene messo in discussione. Da un lato dico che l’università deve essere l’elemento che accompagna i giovani ad un uso critico delle tecnologie, non c’è nessuno nel nostro tempo che dica ai giovani di avere un piano regolatore dei loro comportamenti comunicativi, se non lo facciamo neanche noi professori significa che ci dimettiamo dall’essere professori.

(a cura di Emanuele Cambiaso e Mario Gargantini)