Incontrando Lucio Rossi al Meeting di Rimini, dove sta per intervenire nello spazio WHAT?, l’iniziativa di Euresis e Fondazione Ceur che mette a tema il rapporto persona-tecnologia, è inevitabile parlare di cosa sta succedendo al Cern, negli esperimenti dell’acceleratore LHC. Lucio Rossi è un fisico ed è stato uno dei principali artefici della performance tecnologica dell’acceleratore che ha portato alla scoperta del bosone di Higgs; ora è project leader del passo successivo, il High Luminosity LHC.



Si è trattato di un falso allarme o il segnale anomalo catturato recentemente dai ricercatori di LHC porta qualche novità?
Non si può dire che ci siano novità. Il segnale l’anno scorso ere più forte; siccome al Cern siamo veramente nel regno della conoscenza indiretta, essendo molto indiretta essa richiede molto impegno, molti dati, ed aumentando i dati ci siamo accorti che il segnale non è cresciuto proporzionalmente, anzi è diminuito. Quindi probabilmente si tratta di un falso allarme, ma dal momento che non è del tutto sparito, come si direbbe in inglese, stay tuned. Come avevamo detto a dicembre c’era una piccola speranza, parliamo di una certezza di 3 sigma: significa 99% di certezza, che in fisica è davvero poca, ne servirebbero 5.



Come reagiscono gli scienziati di fronte a queste incertezze o mancate scoperte?
Io non la chiamerei “mancata scoperta”. Per la certezza bisogna fare un lungo cammino, non è quasi mai un’improvvisa folgorazione; pensiamo alla caccia al Bosone di Higgs che è durata 40 anni. Speravamo che questo fosse il primo segnale della materia oscura, ma bisogna confrontarsi con la realtà, noi non siamo i padroni di ciò che studiamo, dobbiamo confrontarci con essa, non possiamo inventarla; bisogna affrontare queste scoperte con una grande umiltà.

Parlando di comunità scientifica ci avviciniamo al tema di questo Meeting: che esperienza si fa al Cern di collaborazione, rapporto con le diversità, convivenza tra idee e approcci diversi?
È un’esperienza bellissima. Tanti hanno l’immagine dello scienziato solo nel suo laboratorio che si immagina chissà cosa, a volte accade, ma in realtà la scienza quasi sempre va avanti perché è il frutto del lavoro di una comunità. Paragono sempre la comunità di chi costruisce gli acceleratori alle comunità che costruirono le grandi cattedrali, infatti i tempi ormai sono questi, i progetti durano almeno 15 anni se non 40. Questi risultati richiedono uno sforzo comune, e il “tu sei un bene per me” si riscontra, nel mio caso, nella collaborazione tra fisici teorici, sperimentali e tecnologici come il sottoscritto. Ognuno può imparare dall’altro, a condizione di ricordarsi chi siamo: lo sperimentale deve rimanere sperimentale, il teorico deve rimanere teorico. Solo così questo può diventare un vero guadagno professionale, un guadagno concreto; ascoltare gli altri non deve essere un buonismo. E non è solo una questione di solidarietà. Chi sa ascoltare, alla lunga, è avvantaggiato.



Entrando più nello specifico della sua esperienza: voi familiarmente chiamate l’acceleratore LHC col termine “macchina”. Cosa vuol dire fare tecnologia in un luogo come il Cern?

Ormai persiste l’idea di questo circolo virtuoso in cui la scienza spinge il progresso tecnologico. In occidente la vera spinta fu data dall’idea stessa di scoperta scientifica, ma a sua volta la tecnologia è diventata uno strumento indispensabile per la scienza: oggi per poter progredire scientificamente ci servono questi strumenti, estensioni di noi che però necessitano di noi per vivere, della nostra intelligenza. Anche nella tecnologia più complessa c’è sempre qualcosa di umano, l'”io”; la tecnologia progredisce grazie all’importanza dell'”io”, che però per esistere necessita anche di un “tu”. La tecnologia vive di questa tensione, l'”io” può avere un’idea, ma ha bisogno di un “tu” per confrontarsi, per realizzarla.

(a cura di Emanuele Cambiaso e Mario Gargantini)

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