La famosa definizione data da Pascal di quell’insostituibile ingrediente della conoscenza che lui chiama esprit de finesse ha a che vedere con l’abilità di taluni spiriti di comprendere e fare tesoro di tutte quelle infinite suggestioni che «… si vedono a mala pena, si sentono piuttosto che non si vedano; ed è molto difficile farle sentire a chi non le sente da sé; sono cose talmente tenui e tanto numerose, che occorre una sensibilità molto delicata e precisa per sentirle e per giudicare giustamente e proprio secondo tale sensibilità, senza poterle, per la maggior parte dei casi, dimostrare con ordine, come in matematica, perché non se ne possiedono allo stesso modo i principi; e volerlo fare sarebbe un’ impresa senza fine. Bisogna cogliere la cosa tutta d’un colpo, in un solo sguardo, e non per un progredire del ragionamento, almeno fino ad un certo punto» (Pensieri. Città Nuova, 2003).
Alla fine dello stesso Pensiero, Pascal tira le somme del suo ragionamento mostrando come la contemporanea presenza di rigore (esprit de geometrie) e intuizione/sensibilità (esprit de finesse) sia necessaria per intraprendere la strada della scienza che, ridotta a uno solo di questi termini, risulterebbe monca.
Ignazio Licata che, oltre ad essere un valente e originale fisico teorico è anche un fine musicologo, ci propone (Piccole Variazioni sulla Scienza, Dedalo, 2016) quello che a mio avviso è un accorato appello alla sopravvivenza dell’esprit de finesse nelle scienze, richiamandosi a una sua largamente misconosciuta applicazione pratica: i componimenti musicali dal titolo “variazioni su tema di…” tra cui si nascondono degli autentici capolavori.
Nelle più riuscite variazioni sul tema, il musicista fa agio sulla sua sensibilità ai particolari fini, al non completamente esplicito, all’appena accennato, di un tema di riferimento (il lettore meno versato nella musica classica può utilmente far riferimento agli standard continuamente rivisitati dal jazz o anche a certe geniali rivisitazioni della musica popolare contemporanea) per metterne alla luce una ricchezza nascosta.
Il burocrate del pensiero perderà il suo tempo in noiose disquisizioni sulla “reale paternità” di tali opere (che comunque considererà “minori”): Ignazio ci mostra come tali loschi figuri abbiano inquinato il mare della storia del pensiero con polarizzazioni artificiose tra empiristi e idealisti, tra un peloso amore per i “fatti” e una ugualmente mortifera esaltazione della “teoria”. La filosofia della scienza è stata ammorbata da tali futili questioni per secoli e, se esse hanno avuto un rilievo tutto sommato trascurabile nel lavoro reale degli scienziati veri (chi fa la scienza sa per istinto che non ha senso separare le misure sperimentali dalla teoria che le informa) hanno purtroppo devastato il mondo ispirando visioni politiche e legislative. Il guaio è che, in questi tempi scombiccherati di “supermarket della scienza” (la definizione si deve al grande e mai dimenticato Marcello Cini), la marea vociante dei burocrati ha sfondato le porte dei laboratori e ha amplificato a dismisura le sue grida nei media. Le porte hanno ceduto (troppo?) facilmente forse perché si era in un periodo di grave crisi di efficacia della scienza (vedi Geman, D., & Geman, S., Science in the age of selfies. PNAS, 2016, 113 (34), 9384-9387) e allo stesso tempo l’impresa scientifica era cresciuta a dismisura e aveva un enorme bisogno di denari per essere sostenuta. Da qui il patto scellerato con il marketing: tu mi dai un efficace instrumentum regni da usare come pensiero unico, io ti finanzio. Ecco allora che il lavoro di Ignazio diventa necessario ben aldilà del campo dell’epistemologia.
Ma torniamo alle piccole variazioni: i temi qui sono diversi standard della scienza che vanno dai modelli economici alla biologia, alla fisica teorica. I saggi sono tutti preziosi e acuti, invito il lettore a gustarseli con la dovuta calma, però mi preme segnalare quello che, a mio avviso, rappresenta la chiave di volta del messaggio di Ignazio e che esplicita al meglio la sua posizione che poi viene declinata nei differenti saggi.
Curiosamente (ma forse non troppo), è l’unico saggio che non prende le mosse da un tema scientifico ma da un romanzo: Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, forse uno dei testi più affascinanti della letteratura contemporanea. Se non lo avete letto procuratevelo; comunque Ignazio, nel suo capitolo 10 (Figure della Conoscenza in Horcynus Orca) fornisce le coordinate principali per comprenderne il senso.
Qui si parla di una misteriosa figura nomadica “lo spiaggiatore” che il protagonista (siamo nel 1943, subito dopo l’8 Settembre e il protagonista sta tentando di raggiungere la sua Sicilia dal continente) incontra sulla lunga spiaggia che da Gioia Tauro arriva a Bagnara Calabra inframezzata dalle scogliere del lido di Palmi. Lo spiaggiatore opera una perfetta sintesi di una ideale teoria della conoscenza distinguendo le due fasi antitetiche del sentito-dire e del visto-con-gli-occhi da integrarsi e superarsi nel gradino finale del visto-con-gli-occhi-della-mente. Il sentito-dire rimanda a una visione solo libresca (o peggio chiacchierata) della scienza, le asserzioni prese per buone senza contestualizzarle, le esagerazioni dei media, ma anche oneste teorie non calate nei fatti, è il lato idealista della scienza. Il visto-con-gli-occhi è il trionfo dell’empirismo, la raccolta disordinata di fatti, corrisponde esattamente all’odierna idolatria per i Big Data. Il visto-con-gli-occhi-della-mente è il definitivo coronarsi del percorso iniziatico (come ogni serio lavoro artigiano anche la scienza implica un percorso sapienziale) in cui l’unico vero approccio al reale (che comunque esiste di per sé e ha una sua ostinata resistenza) è quello che integra l’osservatore all’interno del processo conoscitivo e che non può fare a meno del senso.
La proposta di Ignazio ci indica quella che forse è l’unica via a nostra disposizione per salvare dalla morte termica quella parte così importante della nostra condizione umana a cui diamo il nome di scienza. Il tempo stringe.