Da sempre gli uomini percorrono anche enormi distanze per visitare nuovi ambienti, per partecipare ad eventi, per ammirare opere d’arte o paesaggi naturali. C’è la convinzione diffusa che il valore della realtà originale sia dato dal fatto che nessuna riproduzione riesca a riprodurla interamente. Ultimamente tuttavia si sono sviluppate tecnologie che potrebbero minacciare tale convinzione. È il caso della tecnica “relievo”, un originale processo sviluppato da FujiFilm Belgio per le riproduzioni di opere d’arte di altissima qualità, combinando tecnologie innovative e lavoro artigianale estremamente specializzato. Per la prima volta scansione 3D, tecniche di stampa e di imaging digitali sono usate congiuntamente per riprodurre fedelmente non solo l’immagine ma anche i dettagli materici e i colori di un’opera. La struttura del dipinto originale è scansionata in 3D con risoluzione fino a 16 Megapixel; questa mappa digitale di alta qualità viene utilizzata per la produzione di un primo “relievo” che, una volta approvato dal curatore del museo, diventa la copia di riferimento per la produzione di ulteriori esemplari. Il complesso processo di realizzazione della copia dura diversi mesi e consiste in molti passaggi, spesso manuali, eseguiti con cura ed estrema attenzione ai dettagli. Materiali differenti vengono utilizzati per ottenere un risultato finale il più possibile fedele all’originale per colori, brillantezza e tratto. Ogni “relievo” prevede la riproduzione ugualmente accurata della cornice e del retro del dipinto originale. È inoltre provvisto di un certificato – approvato dal museo che custodisce l’opera d’arte – a garanzia dell’alta qualità di una perfetta riproduzione che costituisce di per sé un vero e proprio capolavoro. Un esempio l’abbiamo visto al Meeting di Rimini presso lo spazio WHAT – What’s Human About Technology, organizzato da Associazione Euresis e Fondazione Ceur, dove è stata esposta una ricostruzione del celebre Ramo di mandorlo in fiore realizzato dal pittore Vincent van Gogh a Saint Rémy nel 1890. Si è trattato di una riproduzione tridimensionale ad alta qualità, con una risoluzione di 50 micron laterale e 9 micron di profondità; è stata ottenuta con una combinazione di scansioni, immagini, polarizzazione, algoritmi di ricostruzione, che ha consentito di approssimare l’originale in un modo praticamente indistinguibile. L’abbiamo ammirata insieme ad Alessandro Rovetta, professore di Storia della Critica d’Arte, presso l’Università Cattolica di Milano.



Le nuove tecnologie della comunicazione cosa cambiano nella produzione, nello studio e nella fruizione delle arti, in particolare in quelle figurative? 

L’ambito della produzione artistica è cambiato tantissimo e continua a cambiare da anni perché si sono aperte nuove possibilità, nuovi generi, per esempio la video arte. D’altra parte il mondo contemporaneo è molto attento a queste nuove forme d’arte che rispondono alle esigenza dell’artista di ritrarre la realtà, di darne un’immagine nuova, dove permane certamente il filtro della persona ma attraverso una strumentazione nuova, con nuove possibilità espressive. Senz’altro il futuro dell’arte contemporanea sarà sempre più interessato da questo tipo di tecnologie.



Per quanto riguarda lo studio delle opere d’arte del passato? 

Per quanto riguarda lo studio delle opere d’arte antiche ovviamente la possibilità di vedere con più attenzione e con maggiori dettagli le singole opere è un grande aiuto. Non bisogna però arrivare a sostituire quella che è una riproduzione, anche perfetta, con l’originale.

 

Con riproduzioni come quella appena vista di Fujifilm, in grado di ricostruire un quadro con un grado elevatissimo di fedeltà, stiamo andando oltre l’idea di copia? Qual è il valore aggiunto rispetto all’originale? 



 Questo esempio, che riconosco essere davvero sorprendente per la fedeltà all’originale, si pone come il vertice di un percorso, di una tendenza che nella storia dell’arte è sempre esistita, cioè quella di copiare o far copiare opere, dipinti o sculture, per averle a disposizione come modello per la propria o altrui attività artistica – si pensi alle Accademie – o come pezzi per i collezionisti, che per evidenti motivi non potevano entrare in possesso dell’originale. Il valore dipendeva dalla fama dell’originale, dalla fedeltà al prototipo, dalla notorietà del copista. Rimaneva comunque una copia. A volte si richiedeva allo stesso autore dell’originale una replica identica: al Prado di Madrid e all’Ambrosiana di Milano ci sono due Presepi di Federico Barocci, praticamente identici e autografi del pittore urbinate; l’immagine è notissima, ma non so quanti si accorgono che le didascalie portano musei e città diverse. Nel caso specifico di questa immagine in 3D e in genere per questi prodotti tecnologici, usiamo il termine “riproduzione”, che forse corregge l’accezione negativa che ha assunto nel corso del Novecento, ma la sostanza – direi anche commerciale – non cambia. 

 

E cosa c’è di speciale nell’originale? 

 I fattori che immediatamente distinguono e rendono unico l’originale sono principalmente due. Il primo è la sua materialità, in quanto i materiali dell’originale – quella tela, quei pigmenti, quelle vernici – non saranno mai quelli della riproduzione. L’altro è la sua storicità: l’essere accaduto in un momento, in un luogo e soprattutto dall’esperienza specifica di un uomo assolutamente irripetibili nel loro accadere. Davanti all’originale di Van Gogh noi possiamo immedesimarci nel fatto che lo stiamo guardando proprio come lo guardava e lo viveva l’artista nel suo farsi con i suoi pennelli, lesue spatole e i suoi colori. Dentro quell’opera c’è la comunicazione della sua esperienza. Quando siamo davanti all’originale questi fattori sono percepibili come se avessimo Van Gogh di fianco. La materialità e la storicità incidono anche sul fatto che tutte le opere d’arte dalla loro pubblicazione ad oggi si sono inevitabilmente più o meno trasformate. Per capire: questa che vediamo è una stupefacente riproduzione del Mandorlo nello stato di conservazione di oggi e non eseguita il giorno stesso della sua creazione. Del resto proprio l’assetto materiale e il percorso storico delle opere sono i fattori che la realizzazione di copie o riproduzioni ha sempre rinunciato a riprodurre: della Pietà Vaticana di Michelangelo esistono copie in gesso, realizzati da calchi direttamente eseguiti sull’originali, quindi formalmente perfetti ma materialmente diversi (anche più economici).

 

Che senso può avere allora accostarsi alla riproduzione virtuale? 

Guardare questa riproduzione nell’ambito della realtà virtuale, considerandola come una copia, quale effettivamente è, va benissimo; e si può andare avanti molto su entrambi i piani, reale e virtuale, con soddisfazione e aiuto reciproco. L’importante è non confondere i piani. La fedeltà in 3D mi offre, come godimento ma anche come studio, molti più elementi di qualsiasi altra riproduzione, quindi mi avvicina di più all’originale.

 

Quindi lei pensa che valga comunque la pena fare un viaggio ad Amsterdam per vedere da vicino l’originale del Mandorlo in fiore di Van Gogh? 

 Assolutamente sì.

 

Picasso ha detto “i computer sono inutili, sono in grado di fornire solo risposte”; l’opera d’arte pone domande o dà risposte? 

L’opera d’arte comunica un’esperienza, l’esperienza di una persona, dell’autore, condensando in un particolare momento e in una particolare opera tutto ciò che costituisce il portato, l’intensità di una vita umana. L’arte è sempre un tentativo di comunicazione da parte dell’artista, che generalmente vuol condividere le sue domande, vuole avere dei compagni sulla strada che sta percorrendo; nel caso di Van Gogh, ad esempio, l’aspetto delle domande è decisamente prevalente. Certamente poi ci può essere anche la condivisione delle risposte, quelle che l’artista ha trovato fino a quel determinato momento del suo cammino. L’opera d’arte è sempre una richiesta di condivisione, l’espressione di un bisogno sconfinato di bene, di vero e di buono.

 

(a cura di Emanuele Cambiaso e Mario Gargantini)