C’è uno strano e contraddittorio rapporto tra la scienza e l’opinione pubblica, soprattutto in Italia. Da un lato la scienza (spesso confusa con la tecnologia o con la medicina) viene vista come risolutrice di ogni problema (con la cura giusta, tramite una macchina innovativa, un algoritmo, una formula ecc.); dall’altro si ipotizzano oscure commistioni fra scienza e potere, al punto da ritenere che certe bufale diffuse on line siano oro colato e che gli scienziati le contraddicano a vantaggio di imprecisati poteri forti. Sembra difficile comunicare un’immagine autentica realistica di cos’è la scienza, delle sue potenzialità e dei suoi limiti, di come viene vissuta l’esperienza della ricerca, del contributo che può dare allo sviluppo non solo tecnico ma anche culturale. Sono aspetti che possono emergere ed essere approfonditi se si cerca di rispondere a un interrogativo come questo: si può vivere senza scienza? È la domanda che fa da titolo al convegno che si svolgerà dal 2 al 4 marzo all’Auditorium Antonianum di Roma dove scienziati, teologi e filosofi sono stati convocati dal SEFIR (Scienza E Fede sull’Interpretazione del Reale), un’Area di ricerca interdisciplinare attiva presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ecclesia Mater. Il coordinatore del convegno, Giandomenico Boffi, Ordinario di matematica all’Università degli Studi Internazionali di Roma, ha anticipato per IlSussidiario.net alcuni temi del dibattito. 



Oggi si parla molto di Big Data, sembra non esserci ambito che non ne venga modificato: possono cambiare anche il modo di fare scienza? Come? 

La disponibilità di grandi masse di dati costituisce una significativa opportunità per la scienza, e le tecniche di analisi di queste masse sono di notevole interesse. L’efficacia di queste tecniche è talvolta portata a sostegno di una posizione filosofica contraria al metodo scientifico tradizionale, nel senso che le correlazioni scoperte dai calcolatori dovrebbero sostituire l’usuale modellizzazione scientifica e guidare direttamente predizione e azione. Non ci sarebbe bisogno di avere un modello che rappresenti la realtà cogliendone aspetti sostanziali e relazioni funzionali, ma le regolarità individuate nei dati sarebbero sufficientemente eloquenti. Si tratta tuttavia d’una posizione debole, vuoi perché ignora il ruolo dello studioso che concepisce le tecniche di analisi, vuoi perché è matematicamente dubbia. Ad esempio, un recente articolo di Calude e Longo (Foundations of Science, pp. 1-18, March 2016) dimostra che masse di dati molto grandi, anche prodotte a caso, contengono per forza tante correlazioni arbitrarie, dovute cioè non alla natura dei dati bensì alla loro abbondanza. Più solida mi sembra la posizione di coloro che vedono nei progressi compiuti dalle tecniche di analisi dei cosiddetti Big Data un arricchimento del metodo scientifico tradizionale, che nel corso dei secoli ha infatti sempre ampliato la gamma degli strumenti a propria disposizione. 



Sta forse cambiando anche il rapporto tra scienza e tecnologia, con una prevalenza degli aspetti funzionali su quelli prettamente conoscitivi. Se è così, quali possono essere le implicazioni sul piano culturale? E su quello educativo? 

Sebbene creda che siano sempre esistite tecniche di origine non scientifica, mi sembra che in epoche recenti siano state dominanti le tecniche basate su un fondamento scientifico. Oggi parrebbe diffondersi l’idea che lo sviluppo tecnologico possa sostenersi da solo, senza ricorso alla scienza, ma penso che sia un’illusione. Ciò non toglie che illusioni del genere possano avere un grande impatto sulla società, contribuendo a quella mentalità secondo la quale ha un valore soltanto quel che genera benefici tangibili, generalmente intesi come benefici economicamente quantificabili. Credo che tutti ci rendiamo conto di come questa mentalità unilaterale stia abbassando la qualità della nostra vita, stia cioè diseducandoci, nel senso di non consentirci di tirare fuori da noi stessi tanti aspetti positivi che pure ci sarebbero accessibili. Certo, invertire la tendenza non è semplice: occorrono buone idee su come farlo e molta determinazione nel realizzarle. 



 

C’è chi insiste nel sottolineare le dimensioni umanistiche della scienza: non le sembra una battaglia perduta? 

Forse è una battaglia perduta, tuttavia a mio parere questa sottolineatura è proprio uno degli elementi fondamentali per cercare di operare quell’inversione di tendenza citata prima. Non basta infatti sottolineare il fondamento scientifico della tecnologia, ma occorre comprendere l’autentica natura di quel fondamento scientifico, pena il rischio di “tecnologizzare” la scienza. Ora, sebbene sia legittima l’aspettativa che la scienza arrechi beneficio alla specie umana, non va taciuto che uno dei motori dell’indagine scientifica è la curiosità, il desiderio di conoscere fine a se stesso, che radica la tanto sbandierata e forse poco praticata libertà della scienza. Tale libertà consiste non nella licenza di fare ogni cosa, ma nella esigenza di non sottomettere sempre l’indagine scientifica ad altri fini, fossero anche meritori. C’è insomma un valore contemplativo della scienza che è un bene umano primario e che va accuratamente tutelato. 

 

Il titolo di questo convegno pone un interrogativo interessante: qual è la sua personale risposta e come la motiva. 

Potrei aggiungere a quanto detto sopra che la scienza è un bene primario alquanto delicato, come sono delicate certe piantine bisognose di cure attente. C’è il rischio insomma che la scienza muoia o almeno deperisca. Non è scritto infatti da nessuna parte che il progresso scientifico-tecnologico attuale continui per sempre. Anzi la storia passata mostra casi di arretramento (penso ad esempio al fondamentale libro di Lucio Russo intitolato “La rivoluzione dimenticata”). La mia risposta personale, tuttavia, non è solo in questa ovvia considerazione che senza scienza difficilmente potremmo continuare a godere di tutta una serie di benefici pratici cui siamo ormai abituati. A mio parere non possiamo vivere senza scienza perché senza di essa sarebbe mutilata una parte importante del nostro essere umani. Il desiderio disinteressato di conoscere mi sembra una caratteristica essenziale della nostra specie. Così essenziale da manifestarsi (almeno nella tradizione ebraica e cristiana) anche nel rapporto con Dio, rapporto che non estromette mai la ragione umana.

 

(Mario Gargantini)