A metà settembre 2016, in rappresentaznza del Dipartimento di Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio e Ingegneria Chimica dell’Università della Calabria, sono stato alle isole Svalbard, a nord della Norvegia, in occasione di un evento promosso dalla Società Geografica Italiana, nel quadro delle celebrazioni per il 90° anniversario dell’impresa polare del dirigibile Norge (1926). Le manifestazioni si sono svolte a Longyearbyen, località fondata nel 1906 su un deposito morenico frontale che conta poco più di 2000 abitanti. Dal 1993 ha una sede universitaria per gli studi artici con circa 500 studenti. Nei pressi di Longyearbyen è stato realizzato un deposito internazionale di sementi, Svalbard Global Seed Vault, già soprannominato dai mass media come “il giardino dell’Eden ibernato”: vi sono accumulate le copie di riserva dei campioni di altre banche. La visita di studio è stata di notevolissimo interesse per tutto il gruppo costituito da professori universitari di varie regioni italiane e da cultori dell’ambiente.



Abbiamo avuto modo di percorrere e di esplorare una piccola parte del territorio, aiutati anche dalla presenza di un ricercatore italiano del Cnr con sede alle Svalbard a Ny-Alesund e da un imprenditore milanese che si occupa di turismo in queste terre estreme. Abbiamo compiuto due percorsi speciali: uno via mare nei pressi di Billefjorden, visita ad una imponente miniera di carbone russa, oramai abbandonata, e poi al Nordenskioldglacier, un ghiacciaio che si adagia nelle acque del mare di Barents. Il secondo percorso ci ha portati ad affrontare un tratto di oltre sei kilometri, con una discesa finale lungo un vasto ghiacciaio chiamato Sarkofagen. Sono stati giorni in cui l’aspetto del paesaggio, totalmente privo di vegetazione, il permafrost e le dorsali moreniche, mi hanno fatto pensare alla possibilità di realizzare un progetto per produrre alcuni tipi di ortaggi in aree dove i vegetali debbono, ovviamente, essere continuamente importati.



Le previsioni dei climatologi, nell’ambito del riscaldamento globale, azzardano uno scioglimento progressivo e irreversibile del permafrost entro il 2050, che, entro il 2100, coprirà il 90% della intera superficie ghiacciata dell’emisfero nord del Pianeta. Da una ricerca, pubblicata su Nature il 6 novembre 2011 è emerso che esiste un mondo microbico bloccato nel permafrost che, mentre il nostro pianeta si riscalda, ritorna in vita e potrebbe cominciare a rilasciare gas serra, amplificando così gli effetti del riscaldamento globale. Infatti, nel corso dei millenni, il permafrost ha immagazzinato una grande quantità di materia organica grazie al fatto che le basse temperature inibiscono la decomposizione completa della vegetazione che muore. Il riscaldamento del pianeta lo scongela e così rende disponibile questo carbonio per la decomposizione da parte dei microrganismi presenti, che si svegliano affamati dopo un lungo sonno ristoratore nel ghiaccio: ma la ”digestione” della sostanza organica produce anidride carbonica e metano, entrambi pericolosi gas serra.



L’ecosistema del permafrost è ancora ampiamente da esplorare: la maggior parte dei microrganismi presenti non sono mai stati coltivati in laboratorio e più del 9% non è stato ancora identificato. Un paio di decenni fa gli studuiosi del sistema avevano ipotizzato che col disgelo del permafrost il carbonio potesse venire rilasciato atrverso una grande esplosione, provocando così un’accelerazione significativa del riscaldamento globale. Invece, secondo un nuovo studio condotto dal US Geological Survey e pubblicato su Nature nel 2015, le previsioni di un rilascio catastrofico di CO2 e di CH4 per lo scioglimento del permafrost sarebbero state esagerate. Più che in un’eruzione, affermano, l’anidride carbonica dovrebbe essere rilasciata in modo graduale e prolungato, ma con impatti comunque importanti sul clima. Quali siano le conseguenze lo spiega Tommaso Tesi, ricercatore di Ismar-Cnr e primo autore del lavoro pubblicato su Nature Communication: «Tale processo trasforma materiale virtualmente inerte in un substrato nuovamente disponibile per la decomposizione batterica, con il conseguente rilascio in atmosfera di carbonio e metano, due gas serra coinvolti nel riscaldamento globale.

Considerando che il permafrost contiene oltre due volte la quantità di carbonio presente in atmosfera prima della rivoluzione industriale, il processo di scioglimento e il successivo rilascio dei gas serra rappresentano una significativa conferma del contemporaneo riscaldamento globale». La biodiversità di queste comunità microbiche è considerevole: un solo grammo di suolo può contenere migliaia di specie batteriche diverse e miliardi di cellule. Alcuni di questi organismi sono simili ad altri batteri noti per essere resistenti alle radiazioni o all’essiccazione e questo offre un indizio di come questi organismi siano stati in grado di sopravvivere più di 1000 anni in uno degli ambienti più difficili della Terra.

Per cercare di capire l’impatto dello scongelamento sulla produzione di metano, il team di Janet K. Jansson e i suoi collaboratori del Lawrence Berkeley National Laboratory ha prelevato e analizzato campioni di DNA usando tecniche di metagenomica, ossia di sequenziamento del genoma dei microrganismi, direttamente nel loro ambiente naturale. Grazie a questa tecnica, che per la prima volta ha permesso di sequenziare una ”bozza” di genoma (draft genome) dei microrganismi presenti nei campioni di permafrost, sono stati individuati diversi batteri che producono metano, di cui uno mai osservato prima. L’abbondanza di questo nuovo metanogeno, ancora senza nome, suggerisce che questo possa essere una fonte importante di metano in condizioni di congelamento. Inoltre, i dati genomici hanno rivelato che questo batterio ha anche i geni per la fissazione dell’azoto, ed è la prima volta che nel permafrost viene descritto un metanogeno con queste caratteristiche. Applicando la metagenomica per studiare la composizione e le funzioni della comunità microbica, si potrà quindi capire come questa specie sconosciuta, residente nel permafrost, entri nel ciclo del Carbonio e rilasci gas serra durante il disgelo.

La base della mia idea progettuale è la constatazione, attraverso i dati dell’IPCC sui cambiamenti climatici e una letteratura scientifica piuttosto univoca, che il permafrost sta attraversando una fase di progressivo scioglimento, con gravi segni di cedimento, come dimostrano le innaturali inclinazioni degli alberi o la perdita di stabilità delle costruzioni in numerose aree che si affacciano intorno all’80esimo parallelo. La mia proposta prevede la messa a punto di un sistema ingegnerizzato nel quale coesistano competenze di tipo agronomico e pedologico relative al trattamento del permafrost e di tipo tecnico e ingegneristico per quanto attiene la realizzazione di una serra che, in alcuni mesi dell’anno, da aprile a settembre, consenta al permafrost, dopo opportuni interventi di tipo agronomico, di fare nascere ortaggi come, ad esempio, l’insalata, sfruttando l’enorme potenzialità di sostanza organica derivata dalla decomposizione di residui animali e vegetali contenuta da millenni nel terreno ghiacciato e catturando parte del potenziale di carbonio e metano che i batteri presenti nel suolo sono in grado di sviluppare durante la fase di scioglimento del ghiaccio.

Sono interessanti due casi connessi con l’argomento in oggetto. Grazie alla tecnologia sviluppata dalla Nasa nell’ambito del programma Veggie dalla ricercatrice Gioia Massa – una scienziata al Kennedy Space Center della Nasa in Florida – tra breve sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) si potranno coltivare insalate e ortaggi in assenza di atmosfera e senza bisogno di terra, impossibile da utilizzare in assenza di gravità. La speciale ”serra” per la crescita di lattughe è una specie di cuscino gonfiato ad aria in grado di crescere in altezza insieme alle piantine. Il secondo caso riguarda i giapponesi che dal 2016 coltivano in grandi quantità pomodori nel permafrost in Russia a Yakutsk, nella Jakuzia, estremo nord orientale della russia al 62° parallelo a una temperatura di -40 e -50 °C, utilizzando serre speciali. Per sviluppare la produzione di ortaggi in area artica bisognerà utilizzare una serra altamente tecnologica e bioclimatica. Si tratterà di individuare le caratteristiche e le tecniche necessarie per la cattura di CO2 e di CH4, per la dotazione di luci a led e per consentire una termoregolazione della temperatura.

In questi mesi sto programmando le riunioni tra gli specialisti del settore insieme a ricercatori delle Università norvegesi, compresa quella di Longyearbyen, grazie anche all’incontro avuto alla fine delle giornate di studio con il Governatore delle Svalbard, la signora Kjerstin Askholt, che ha auspicato il nostro intervento scientifico nelle aree di sua competenza e alla quale abbiamo consegnato una targa ricordo dell’evento. Per nutrirsi di insalata all’80esimo parallelo bisognerà avere ancora un po’ di pazienza.