Ieri, alla terza giornata del Meeting di Rimini 2017, lo spazio “WHAT? Macchine che imparano” ha ospitato due esponenti del panorama biofarmacologico internazionale: Eugenio Aringhieri, presidente del gruppo di biotecnologie di Farmindustria nonché Ceo di Dompè, e Cesare Furlanello, responsabile dell’unita Mpba (modelli predittivi per la biomedicina e l’ambiente) presso la fondazione Bruno Kessler a Trento. La Redazione di What ha raccolto le riflessioni lanciate dai relatori.



Biotecnologie, Big Data e medicina di precisione: come sta accogliendo il mondo farmaceutico le possibilità offerte dalle tecniche di intelligenza artificiale? — L’industria farmaceutica è un campo pieno di sfide e, quindi, vive naturalmente di ricerca. Bisogna riconoscere, però, che negli ultimi anni questo bisogno si è fatto più vivo e che la ricerca rappresenta sempre più l’unica risorsa per affrontare i cambiamenti cui assistiamo. Il nostro patrimonio di conoscenza in questi temi raddoppia ogni giorno e l’aspettativa media di vita continua a crescere, insieme alla qualità della vita degli ultrasessantenni (dal 18% al 29% negli ultimi anni). Questi sono dati importanti e sicuramente rappresentano delle opportunità, ma pongono anche delle sfide. Nel modo che si aveva di far ricerca qualche tempo fa la maggior parte del lavoro per un progetto scientifico si svolgeva nello stesso laboratorio, c’era poca comunicazione e, soprattutto, non vi era la possibilità di affrontare certi argomenti in maniera così multidisciplinare come invece è possibile oggi. Non a caso dei sondaggi condotti negli anni dal 2005 al 2010 mostrano un’inadeguatezza rispetto ai problemi e alle difficoltà di questo settore dei vecchi metodi di ricerca.



Cosa è cambiato rispetto al metodo “classico”? — Possiamo dire che c’è stato un vero cambio di paradigma, di metodi di sviluppo e che è stato possibile su stimolo e grazie alle tecniche di intelligenza artificiale. Questa spinta è stata infatti supportata sia dalla disponibilità di strumenti più precisi ed avanzati, sia dalla maggior attenzione e capacità di analisi di malattie poco comuni e dalla ricerca di cure focalizzate sul singolo paziente.

La caratteristica propulsiva di tale rivolgimento nel modo di far ricerca è la necessità di intercollaborazione in un ambiente sempre più multidisciplinare e appunto bisognoso, per l’entità dei problemi di oggi, di competenze diversissime, che sappiano e siano messe però in condizione di aiutare al raggiungimento di un risultato. Questo è forse il punto più importante del cambiamento nel mondo della medicina: non solo medici, biologi e farmacologi sono necessari per elaborare le cure più efficienti, ma anche matematici, informatici e fisici. Molte delle frontiere della medicina, come le cure di precisione e personalizzate, sono possibili grazie all’analisi di grandi quantitativi di dati e alla contaminazione di tutte queste discipline.



La possibilità di sensorializzare ogni aspetto della persona, ad esempio, offre grandi quantità di dati che devono essere però analizzati, tra i quali devono essere riconosciute complicate relazioni, e in questo le macchine intelligenti rappresentano un ausilio ormai indispensabile.

Quindi i nuovi strumenti servono per analizzare dati? — E’ più di questo in realtà. Le nuove tecnologie ci forniscono la possibilità di “insegnare” agli algoritmi come generare predizioni. Le grandi sfide che ci poniamo sono essenzialmente l’integrazione tra i dati e usare il deep learning come acceleratore di idee. Ci servono macchine in grado di collegare i diversi aspetti di un fenomeno: reti neurali con migliaia di parametri battono già l’uomo in attività che si davano come caratteristiche dell’intelligenza umana e in campo medico molte macchine sono già tanto precise quanto esperti nel settore.

Quali sono le prospettive di questo scenario? — Saranno centrali macchine che riescano a collegare sempre più le traiettorie dei dati nel tempo: esse saranno di grande importanza nell’onco-immunologia pediatrica, cioè nel trattamento tramite farmaci che hanno la capacità di attivare il sistema immunitario del paziente portatore di tumore, rendendolo in grado di riconoscere come estranee le cellule tumorali e distruggerle.

Riccardo Zaccone – Camplus Lingotto; Ing. Informatica Politecnico di Torino