In questi giorni di estrema variabilità delle condizioni meteorologiche sull’intera penisola si sente spesso parlare di “clima impazzito” con conseguente preoccupazione da parte della popolazione. Vale, pertanto, la pena di approfondire questi temi, troppo spesso confusi o trattati solo superficialmente.
Le condizioni atmosferiche dell’inverno 2017-2018, sicuramente caratterizzate da un’accentuata variabilità sia temporale (variazioni intense da un giorno all’altro) che spaziale (situazioni molto diverse lungo la nostra penisola, con temperature quasi primaverili al Sud e intense nevicate sulle Alpi), sono da considerarsi meteorologiche, ovvero manifestazioni della variabilità atmosferica intra-annuale e inter-annuale, che va monitorata con attenzione, ma che diventa evidenza climatica solo sul lungo periodo, ovvero dopo rilevamenti durati almeno un trentennio, come richiede l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm o World Meteorological Organization, Wmo).
Troppo spesso media e opinionisti traggono conclusioni affrettate sul clima, partendo da osservazioni di una sola stagione o di pochi anni, dati che sono sicuramente interessanti, ma che possono permettere di descrivere il clima solo se parte integrante di sequenze di alcuni decenni. Il clima, infatti, per definizione della Wmo, è l’espressione delle condizioni atmosferiche medie su una data località desunte da dati almeno trentennali, mentre il tempo atmosferico (meteo), rappresenta le caratteristiche dell’atmosfera di un luogo in un periodo temporale limitato (dati istantanei, giornalieri, mensili o annuali). E’ evidente che i dati di una singola stagione non sono sufficienti a descrivere le condizioni medie che possono venire comprese solo disponendo di informazioni raccolte per alcuni decenni.
Pensate se dovessimo descrivere quanta neve cade mediamente in una località alpina partendo dai soli dati di quest’anno! Potremmo arrivare ad affermare che in alcune località lombarde nevica in modo eccezionale. Questo è vero per questa singola stagione, ma rivedendo i dati degli scorsi 5-10-20 anni il quadro cambia enormemente; anzi, si è osservata sulle Alpi italiane una generalizzata diminuzione dell’intensità delle precipitazioni nevose con evidenti impatti, per esempio, sui ghiacciai delle nostre montagne, in costante e continuo regresso per questo e anche per le elevate temperature primaverili ed estive degli ultimi decenni, che portano a un’intensa e spesso precoce fusione della neve e del ghiaccio. Una singola stagione, quindi, non è indicativa di cosa accade mediamente e normalmente in una località e può far trarre conclusioni erronee o fuorvianti.
Anche gli eventi meteorologici “estremi”, di cui tanto si parla nel periodo attuale, fanno parte della variabilità meteorologica inter-annuale e gli studi finora condotti non hanno indicato con certezza una loro maggiore incidenza recente. Sicuramente negli ultimi anni si registra una maggiore attenzione a questi temi e ai loro impatti socio-economici e se ne parla di più, ma numericamente gli eventi sembrano tanto frequenti quanto in passato.
Quali sono, quindi, le vere evidenze dei cambiamenti climatici? Sicuramente sono reali e concreti indicatori del cambiamento climatico i dati di temperatura dell’aria misurati presso gli stessi siti per periodi lunghi. Vale la pena visitare il sito del Cnr Isac (Consiglio nazionale delle ricerche, Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima), aggiornato mensilmente, dove sono visionabili le serie di dati su scala nazionale che ben evidenziano il riscaldamento degli ultimi trent’anni. Per quanto riguarda le precipitazioni, lo stesso sito e anche altri recenti studi scientifici, mostrano che il totale annuo è pressoché stabile negli ultimi decenni, mentre appare variata la distribuzione temporale con inverni più poveri di nevicate e periodi di più intense e abbondanti piogge (queste ultime con impatti sulla dinamica fluviale e sulle condizioni di dissesto idrogeologico). Fa appunto eccezione, per ora, l’inverno 2017-2018 caratterizzato da nevicate rilevanti.
La miglior evidenza del cambiamento climatico è comunque data dai suoi effetti ambientali e i migliori testimoni sono i ghiacciai delle nostre Alpi, che sopravvivono e si modificano in funzione delle condizioni termiche e delle nevicate. Tra questi i ghiacciai del Parco dello Stelvio, da tempo monitorati con attenzione dai ricercatori della Statale di Milano nell’ambito di progetti di ricerca condivisi e supportati da Ersaf-Parco dello Stelvio e da Sanpellegrino-Levissima Spa.
In particolare, l’attenzione degli studiosi si è concentrata sul “gigante” del gruppo, il Ghiacciaio dei Forni, che fino al 2014 era il più grande ghiacciaio vallivo italiano con oltre 11,3 kmq di area e tre bacini di alimentazione che confluivano in un’unica lingua. Dal 2014, però, è iniziato un processo di frammentazione del ghiacciaio, che oggi lo ha portato non solo a ridurre la sua estensione, ma anche a non poter più venire considerato un unico ghiacciaio vallivo. I settori orientale e occidentale, che confluivano nella lingua attraverso due maestose seraccate, cioè spettacolari gradonate di ghiaccio, si sono infatti separati e oggi la nuda roccia appare al posto dello scintillante ghiaccio glaciale. Anche la neve che permaneva in estate nei settori più elevati del ghiacciaio è sempre più esigua e lascia il posto a ghiaccio grigio plumbeo, solcato da numerosissimi crepacci e coperto da una sottile ma continua patina di particolato atmosferico, polvere e detrito fine. Il paesaggio glaciale rimane superbo, ma il ghiaccio, rimasto senza più la protezione della neve e a causa dell’annerimento per polveri e detrito, fonde sempre più velocemente, rilasciando acqua nei torrenti e nei corsi d’acqua che da qui prendono origine.
Il Ghiacciaio dei Forni mostra chiaramente il fenomeno dell’annerimento superficiale (conseguenza sia di fenomeni naturali, come la degradazione e il dissesto delle pareti rocciose incassanti, che di fenomeni antropici, come gli incendi boschivi e il particolato da combustione di idrocarburi), evento non limitato al solo gigante dello Stelvio, ma comune a tutti i ghiacciai del Parco e della Lombardia in generale, come evidenziato da ricerche su scala regionale della Statale sostenute dalla Presidenza del Consiglio dei ministri (Dara). I ricercatori della Statale hanno quantificato che il 30% della superficie dei ghiacciai del settore lombardo del Parco è coperto da detrito, e l’incremento dell’estensione di questa copertura in meno di un decennio non è trascurabile (+15%). Con le temperature primaverili ed estive sempre più calde i ghiacciai, sempre più neri, fondono più velocemente che in passato e, se i trend rimarranno quelli attuali, ci si aspetta la loro riduzione a meno di un terzo dell’estensione attuale entro fine secolo.
Ma non tutto è negativo: come sempre in natura, ci sono anche degli aspetti positivi nell’evoluzione. La fase di decremento glaciale e l’aumento della copertura detritica stanno, infatti, trasformando la superficie dei ghiacciai, rendendola in molti casi “abitabile” da parte di piante e vegetazione pioniere e numerose specie animali; i ricercatori della Statale, in collaborazione con colleghi dell’Università Bicocca, hanno scoperto anche che alcuni batteri che dimorano nel detrito fine alla superficie dei ghiacciai (in piccole pozze d’acqua chiamate crioconiti) sono in grado di degradare rapidamente alcuni contaminanti, come i pesticidi, che altrimenti permarrebbero più a lungo nell’ambiente.
Insomma, il clima caldo degli ultimi anni non giova ai nostri ghiacciai, ma il detrito che li ammanta sempre più può riservare grandi sorprese, sostenendo nuove forme di vita e accogliendo batteri virtuosi che degradano sostanze nocive.