Era già considerato uno dei più brillanti fisici teorici di Cambridge quando, all’età di 21 anni, gli diagnosticarono una grave malattia degenerativa. Inizialmente i medici gli avevano dato sì e no un paio d’anni di vita, ma dovettero ricredersi quando, anno dopo anno, lo videro resistere ai colpi di quel male insidioso. Stephen Hawking ha vissuto a lungo, oltre ogni ragionevole previsione, in condizioni di crescente afflizione fisica, sostenuto da sofisticati supporti tecnologici e soprattutto dall’affetto di chi ha saputo volergli bene. Fino a ieri, quando il suo corpo ormai esausto si è infine arreso. 



I suoi numerosi e importanti contributi alla fisica teorica sono accomunati da un aspetto: essi mirano a svelare ciò che in natura è estremo, ultimo, essenziale.  Hawking non si appassionava ai problemi di dettaglio o di second’ordine, preferiva le questioni radicali, dove la fisica stessa sembra avvicinarsi ai propri  confini. I buchi neri, ad esempio, sono stati uno dei suoi principali campi di battaglia: oggetti nei quali la natura dello spazio-tempo viene portata ai limiti, quasi messa all’angolo. Partendo da considerazioni di termodinamica Hawking ha dimostrato su base teorica che anche i buchi neri emettono una radiazione di natura quantistica, che oggi porta il suo nome; e che i buchi neri obbediscono a un criterio di estrema semplicità: tre sole grandezze (massa, carica, momento angolare) sono sufficienti a descriverli completamente. Si è poi dedicato alla ricerca delle condizioni iniziali dell’universo, laddove la singolarità iniziale prevista dalla relatività generale si immerge nell’ineffabile regime quantistico.  Infine, è stato un sostenitore convinto della cosiddetta “teoria del tutto”, il sogno cioè di pervenire a una legge fisico-matematica ultima, in grado di contenere tutte le altre, decretando così la “fine della fisica” e approdando a quella che lui stesso definì “la mente di Dio”. 



Sì, Dio. Perché il suo percorso umano e scientifico è stato scandito da una quasi implacabile necessità di misurarsi con l’incombente possibilità di un creatore, il più delle volte per negarla. La sua posizione a questo riguardo ha attraversato diverse fasi, oscillando da una religiosità panteista fino a giungere,  negli ultimi anni, a un esplicito e radicale ateismo. Così lo straordinario successo delle sue opere divulgative e la sua visibilità mediatica, che ne hanno fatto una nuova icona della figura di scienziato, si sono portati dietro un alone di inconciliabilità tra approccio scientifico e fede in Dio.



Più di una volta il suo tentativo è stato quello di dimostrare su base scientifica la non-necessità di Dio come causa dell’inizio dell’universo. Negli anni Ottanta propose un modello cosmologico in cui l’universo non ha confini nello spazio-tempo; un po’ come arrivando al polo Nord noi non incontriamo alcun confine, sebbene il polo sia un punto limite della nostra descrizione del globo terrestre. Secondo questo modello, in linea di principio, è possibile evitare il problema dell’inizio del tempo e di conseguenza, secondo Hawking, di un intervento divino. Più recentemente, seguendo un altro filone, identificava in una fluttuazione del vuoto quantistico primordiale il possibile avvio di un universo auto-generato dalle leggi fisiche. Quindi, concludeva, “l’universo ha creato se stesso dal nulla, non c’è bisogno di alcun creatore”.  

Insomma, mostrando che non siamo necessariamente di fronte a un inizio del tempo, possiamo fare a meno di Dio. Questa sua appassionata obiezione alla “creazione”, tuttavia, rivela un’idea alquanto ridotta di “creatore”. Nella sua immagine il ruolo di Dio è quello di mettere in moto, all’inizio dei tempi, il grande ingranaggio dell’universo per poi dissolversi nel nulla. Quasi un mago che dà un colpo di bacchetta magica e poi svanisce per sempre. Certo non si tratta del Dio cristiano, che crea il mondo come un padre genera la sua creatura, e si coinvolge con essa fino a dare se stesso. Una creazione che non è solo un avvio cronologico, ma il principio dell’essere di ogni cosa, sorgente di ogni istante. Ora come all’inizio.

Che tremenda solitudine deve abitare il cuore di un uomo che, con la profonda coscienza del “grandioso disegno” (è i titolo dell’ultimo libro di Hawking) del cosmo, vede in esso il velo della sua ultima tragica totale insignificanza. Ma l’insistenza che Hawking ci ha mostrato nel ricercare con genialità e indomabile energia, in condizioni di grande sofferenza fisica, ciò che — pur all’interno delle sole vie della scienza — è principio unificante del mondo, rivela tutta la grandezza di un animo mosso da una speciale nostalgia di un abbraccio ultimo. Riposa in pace, Stephen.