Cosa c’è dietro a Exoplanets, la seguitissima iniziativa curata al Meeting da Euresis e Campus e dedicata, appunto, alla ricerca dei pianeti extrasolari? Lo si potrà capire nell’ultimo incontro in programma sabato mattina, con due dei giovani ricercatori che, insieme a un gruppo di altri scienziati operanti in diversi centri internazionali, hanno realizzato e animato lo Spazio Exoplanets, durante la settimana riminese.



Tra meteoriti e telescopi, abbiamo fatto una chiacchierata con uno di loro, Stefano Facchini, ricercatore presso il Max Planck Institut für Extraterrestrische Physik, a Garching, in Germania. Facchini si occupa di Astronomia infrarossa e submillimetrica, che concerne lo studio della formazione di sistemi planetari. Con telescopi che operano nell’infrarosso e nel submillimetrico, infatti, è possibile osservare quello che succede quando, intorno a una stella, si originano i pianeti.



Come è nata la sua passione per l’astrofisica?

La passione per l’astrofisica è nata da bambino: un po’ mi ha sempre appassionato la bellezza del cielo, ma poi, soprattutto, quando il papà di un mio amico – eravamo in campagna e c’era un cielo molto buio – mi aveva indicato i nomi di molte costellazioni e lì mi aveva entusiasmato vedere qualcuno che conoscesse così bene quella bellezza. Da lì mi sono appassionato, poi ho intrapreso questo percorso all’università. A me piaceva molto la matematica, la scienza in generale, alle superiori. Ho scelto di fare Fisica non per forza per fare Astrofisica, ma perché mi piaceva poter capire come funzionano le cose in generale. Più tardi, quando ho dovuto scegliere la magistrale, c’erano due temi che mi interessavano molto: la struttura della materia e il cielo. Alla fine ho optato per il cielo.



Come è arrivato a occuparsi dello studio di formazione planetaria?

In particolare mi occupo di studiare i sistemi in cui i pianeti si stanno formando, che sono i dischi proto-planetari. La cosa è nata dalla mia tesi di magistrale, quando avevo conosciuto il professor Giuseppe Lodato. Mi era piaciuto molto il suo corso, in cui spiegava i dischi proto-planetari, tra le altre cose, quindi gli ho chiesto una tesi. Dalla tesi è sorta la possibilità di fare un dottorato a Cambridge, con una professoressa bravissima, una dei massimi esperti nella teoria della formazione planetaria. Da qui sono partito e sono rimasto su questo campo, perché mi piace troppo.

Come si individua una zona di formazione planetaria?

I dischi proto-planetari si osservano in molti modi. Si vanno a vedere regioni in cui si sa che le stelle sono nate da poco. Questo è relativamente molto facile da sapere. Poi si guardano queste stelle a diverse lunghezze d’onda: si cerca di capire se esse presentano dei dischi attorno e se ci sono evidenze di eccesso di luminosità nell’infrarosso, cioè se c’è della polvere molto calda che emette della luce infrarossa in più rispetto a quella che emette già la stella. Quindi si riescono facilmente a trovare questi oggetti e a identificare i dischi. Una volta identificati, si vanno a studiare nel dettaglio con diversi strumenti a tantissime lunghezze d’onda. Oggi la lunghezza d’onda ottimale per studiare i dischi non è nell’infrarosso, ma nel millimetrico. C’è Hubble Space Telescope che opera un po’ nel vicino infrarosso, però a lunghezze d’onda ancora corte. Quello che manca adesso è un telescopio che operi nel mid-infrared, cioè con lunghezza d’onda intorno a 10 micron, e nel far-infrared, che si colloca a lunghezze d’onda di circa 100 micron. In passato ci sono stati i telescopi Herschel e Spitzer che hanno osservato nell’infrarosso e sono stati fondamentali per la caratterizzazione e datazione di sistemi proto-planetari. Sono in fase di discussione dei satelliti dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea, che saranno molto importanti, in particolare Spica (Space Infrared telescope for Cosmology and Astrophysics).

Quando è stato individuato per la prima volta un disco proto-planetario?

Dell’eccesso infrarosso c’era già evidenza dall’inizio degli anni Novanta. Inizialmente si discuteva se si trattasse di dischi o sfere, che avrebbero avuto le stesse caratteristiche di fotometria infrarossa, ma quando l’Hubble Space Telescope, in quel periodo, guardò la Nebulosa di Orione, vide dei dischi in silhouette, ovvero sul fondo c’era un’emissione molto luminosa della nebulosa e di taglio si vedeva un disco. Quindi avvenne nello stesso periodo in cui fu individuato il primo esopianeta. Poco prima. Poi la scoperta degli esopianeti e lo studio sempre più accurato dei sistemi proto-planetari sono andati di pari passo. L’uno influenza l’altro.

È possibile capire, osservando il disco proto-planetario, se il sistema in formazione un giorno potrà ospitare vita? Come?

Direi che c’è tantissimo da fare. Ad oggi la risposta è no. È possibile capire alcune cose. Quello che si sta facendo in questa direzione, ed è uno dei filoni di ricerca di cui io mi occupo, è andare a studiare proprio le condizioni in cui il pianeta si forma, per capire le condizioni iniziali della sua evoluzione, in particolare della sua composizione chimica, del suo nucleo e dell’atmosfera. Questo lo stiamo facendo e nei prossimi tre anni ci saranno grandi passi avanti.

L’ipotesi più accreditata sulla formazione del sistema solare resta quella formulata da Kant: l’ipotesi nebulare. Oggi sappiamo molto di più?

Si sa molto di più. Sono stati fatti molti passi avanti, come ha detto per esempio uno degli ospiti che hanno parlato al Meeting, Alessandro Morbidelli, il più grande esperto mondiale di formazione ed evoluzione del sistema solare. Si sa che Giove si è formato molto velocemente, che la coppia Giove-Saturno si è spostata verso l’interno e poi verso l’esterno per una combinazione molto particolare, che ha fatto sì che, invece di avere delle super-terre, al centro ci siano dei pianeti rocciosi; ha fatto sì che Marte sia meno massivo della Terra, cosa inaspettata. Si spiega così anche perché l’asse di rotazione di Urano è inclinata di quasi 90 gradi. Inoltre, il sole, quando si è formato, si trovava in una regione ad alta densità stellare e questo lo si sa dallo studio degli isotopi dell’alluminio, del ferro 60. La conoscenza del sistema solare è molto avanzata, nonostante rimangano ancora tantissime cose da capire.

(Meriem Behiri e Alessandro Menghini)

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